Industria 4.0, ecco gli investimenti che servono davvero

Per rilanciare il nostro sistema produttivo il piano del ministro Calenda dovrebbe colmare il ritardo nell’adozione dell’Ict con interventi per la diffusione della banda larga e dei servizi di cloud computing. Obiettivo: inserirsi nelle catene globali del valore

Pubblicato il 04 Ott 2016

Fabiano Schivardi*

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Nell’articolo precedente ho analizzato alcuni dati sul grado di penetrazione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic). L’analisi offre spunti utili per ragionare sul piano Industria 4.0, ovvero la quarta rivoluzione industriale. Cito dalla presentazione del ministro Calenda a Milano: si tratta di un modo di organizzare la produzione basato su macchine interconnesse e sull’analisi di big data. Al di là del marketing, il piano mira all’aumento della penetrazione delle tecnologie digitali nel sistema produttivo italiano sia attraverso interventi infrastrutturali (banda larga) sia con incentivi agli investimenti (superammortamento e iperammortamento, crediti di imposta per spese in ricerca e sviluppo).
Nel 2012 per un rapporto sugli incentivi alle imprese curato assieme a Francesco Giavazzi, elaborammo un semplice criterio per decidere se una misura fosse ammissibile. Primo, deve rimediare a qualche fallimento di mercato. Secondo, lo strumento utilizzato deve essere di provata efficacia. I due criteri sono utili per valutare l’approccio di Industria 4.0.
In via generale, le linee guida sono condivisibili. Si rinuncia a scegliere specifiche aree di intervento (politiche verticali) per focalizzarsi su “fattori abilitanti” (politiche orizzontali o di contesto): non è il ministro che può sapere dove andrà il mondo, meglio lasciarlo decidere agli imprenditori. In termini di strumenti di intervento, si privilegiano quelli automatici, come il credito d’imposta o l’ammortamento maggiorato, rispetto ai bandi a progetto. Anche qui, l’evidenza mostra che è la strada giusta: i primi possono funzionare, soprattutto se mirati alle piccole imprese, mentre non c’è evidenza robusta di un incentivo a bando che sia stato efficace.

Finanziare gli investimenti immateriali

Il punto su cui servirebbe una maggiore focalizzazione è la scelta di cosa finanziare, soprattutto dati i vincoli di spesa dello stato. Non tutti gli interventi annunciati ovviano a un chiaro fallimento di mercato. Ad esempio, non credo che la sfida competitiva si vinca incentivando genericamente gli investimenti in macchinari col superammortamento. La legge “Sabbatini” è uno strumento vecchio ed è tempo di mandarlo in pensione. Meglio concentrare le risorse sugli investimenti immateriali, che per cultura imprenditoriale, esternalità e rischiosità sono più soggetti a problemi. E sono l’elemento su cui si vince o si perde la sfida competitiva nei paesi avanzati.

Possiamo essere ancora più specifici. La teoria e l’evidenza vista nell’articolo precedente ci dicono due cose. In primo luogo, pesa la struttura dimensionale delle imprese. Una caratteristica di molte Tic è una forte componente di costo fisso, che rende poco conveniente l’adozione da parte delle piccole imprese. Fanno eccezione le tecnologie cloud based, dove un’impresa può pagare un costo in base all’utilizzo, lasciando al fornitore di servizi quello fisso di fare manutenzione, gestire la sicurezza, aggiornare i software e così via. Guarda caso, la diffusione dei servizi di cloud computing ha un andamento completamente opposto rispetto al resto delle Tic: il tasso di penetrazione è quasi quadruplo in Italia rispetto alla Germania (42 per cento rispetto a 11 per cento); le differenze fra classi dimensionali sono molto contenute.

Il cloud computing è una tecnologia che potrebbe rispondere alle esigenze e specificità delle Pmi. Importante quindi favorirne la diffusione. Bene accelerare sulla diffusione capillare della banda larga. È necessario anche garantire un quadro normativo di riferimento chiaro e certo: le imprese italiane riportano che l’incertezza al riguardo è più importante nel limitarne l’utilizzo rispetto al costo dei servizi.

L’altro aspetto riguarda la diffusione delle tecnologie che permettano alle imprese di inserirsi nelle catene globali del valore, dove si registra un ritardo anche a parità di struttura dimensionale. Il processo dovrebbe essere guidato dalle “capofila”, cioè da imprese medio-grandi che spingono i loro fornitori a seguirli. La presenza di una platea ristretta di imprese medio-grandi in Italia riduce il tasso di penetrazione. Dato che il problema sono le esternalità di network — coordinare l’investimento lungo tutta la catena clienti-fornitori –, si dovrebbero prevedere incentivi agli investimenti a livello di network stesso. Ad esempio, l’impresa capofila potrebbe stilare una lista dei propri fornitori, i quali avrebbero accesso a crediti d’imposta per investimenti in tecnologie di tipo Scm (supply chain management). Le agevolazioni potrebbero estendersi a spese per formazione del personale, che sono un aspetto in cui il ritardo italiano è molto forte, particolarmente fra le Pmi.

Il sistema produttivo italiano sconta un ritardo nell’adozione delle Tic. Abbiamo bisogno di una politica industriale “umile”, che utilizzi la teoria economica e l’evidenza empirica per capire dove concentrare le poche risorse disponibili. Il ministro si consulti, ascolti e poi decida. Non credo che la “cabina di regia” in formato assembleare, di cui si sono viste alcune foto su internet, sia il modo migliore per formulare e realizzare il progetto.

*questo articolo è pubblicato su lavoce.info

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