Industria 4.0, Seghezzi: “Ripensare le relazioni industriali”

Il direttore di Adapt University Press: “Impresa e sindacati devono trovare un punto di interesse comune, il conflitto sarà residuale”. E sulla formazione: “Sostenere lo sviluppo degli Its”

Pubblicato il 20 Ott 2016

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“Un piano interessante che cambia l’impostazione rispetto a quanto fatto finora sulla politica industriale perché segue la strada da tempo tracciata in Europa, dove gli incentivi fiscali costituiscono il canale privilegiato per la promozione della innovazione e della competitività delle imprese”. Francesco Seghezzi, direttore di Adapt University Press, promuove il piano Calenda su Industria 4.0.

Cosa la convince di più della strategia messa in campo dal governo?

Soprattutto aver deciso di incentivare gli investimenti delle imprese senza fare ricorso al complesso meccanismo dei bandi e aver invece optato per soluzioni più dirette, come il superammortamento e l’iperammortamento. Si tratta di una scelta vincente in una fase in cui è ancora difficile definire cosa sia l’Industria 4.0 e, dunque, individuare le tecnologie abilitanti più adatte al sistema produttivo italiano. Sarà il mercato a dirci di quali innovazioni avrà bisogno la nostra industria perché non è detto che le innovazione che hanno funzionato in Germania, ad esempio, funzionino anche qui.

Non vede il rischio che le risorse vadano anche alle imprese che non fanno Industria 4.0 oppure che decidano di investire in tecnologie non utili se non addirittura obsolete?

Aspettiamo di vedere nel dettaglio i contenuti della manovra per capire quali soluzioni saranno incentivate, immagino verrà fornita per l’iper ammortamento qualche indicazione. È chiaro che un’impresa che voglia acquistare un macchinario proprio di una sistema produttivo tipico degli anni Ottanta dovrebbe essere disincentivata ad usufruire di quei fondi.

L’Italia ha un tessuto produttivo improntato su piccole e medie imprese, tipicamente meno propense all’innovazione. Che fare per evitare che restino indietro?

Servono campagne di sensibilizzazione che vedano impegnati tutti i soggetti coinvolti, dalle istituzioni fino alle imprese passando per i sindacati. In Germania – tanto per citare un Paese dove la rivoluzione 4.0 è in atto – il sindacato è stato quello che più si è impegnato su fronte della “conoscenza”.

Qui c’è un pezzo di sindacato diffidente nei confronti dello smart manufacturing. C’è un modo per tirarlo dentro questo processo?

Partiamo da una premessa: o l’Italia va verso Industria 4.0 oppure il suo tessuto produttivo muore. E se il sindacato si ostina negare questo è destinato a scomparire. Detto questo è innegabile che il tema dell’occupazione, di come cambieranno le attività nella fabbrica e quello dei contratti devono essere messi al centro del dibattito.

E come?

Ripensando tutto il sistema delle relazioni industriali spingendo l’interesse dell’impresa e dei lavoratori verso un punto di convergenza. Convergenza più facile da trovare dentro l’Industria 4.0, dato che l’impresa ha bisogno di lavoratori con alte competenze e il lavoratore che l’impresa si impegni ad investire in formazione. In questo contesto il “classico” conflitto diventa residuale. Ci sono margini per ripensare il rapporto capitale-lavoro.

È vero che Industria 4.0 è un modello di cui si parla ma che ancora non si è realizzato. Però possiamo immaginare come cambierà il lavoro?

Con l’arrivo dell’Internet of Things la produzione non necessita più dell’apporto dell’operaio specializzato per operazioni meccaniche, ma per le attività di settaggio dei macchinari. La conoscenza avanzata di sistemi IT, la capacità di analisi in tempo reale dei big data e il sapersi muovere tra sistemi cyber-fisici saranno la base per gli operai del futuro. Diventa dunque indispensabile conciliare competenze e lavoro: dalla scuola fino alla formazione continua, passando per l’università. Non a caso il Paese europeo i cui lo smart manufacturing si sta affermando più velocemente è la Germania, dove già esiste un forte raccordo tra scuola, università e impresa.

Nel piano Calenda è centrale la collaborazione tra il Mise e il Miur perché il sistema della formazione italiano sia in grado di preparare nuove figure professionali. Dove si deve intervenire prioritariamente, a suo avviso?

Io credo molto nel ruolo possono svolgere gli Its (istituti tecnici superiori) che offrono un modello formativo interessante e soprattutto utile alla creazione di skills di alto livello come quelle che necessitano allo smart manufacturing. In Italia i posti negli Its sono però ancora troppo pochi, ma è positivo che nella manovra 2017 si punti ad aumentarli. Si tratta di un modello di formazione “terziario” ma non universitario, che ha il grande vantaggio di nascere connesso alle aziende e, dunque, capace di rispondere alla domanda di occupazione. I giovani che escono dagli Its hanno tassi di occupazione elevatissimi.

L’investimento sulla formazione ha un ritorno sul lunghissimo periodo. Non rischiamo di perdere il treno?

Questo è un problema che riguarda tutte le economie alle prese con gli investimenti in alta formazione. Meglio rischiare di perdere un treno ma provarci, che stare a lamentarci pensando di conoscere già il futuro. D’altronde anche la Germania che ha un efficientissimo sistema formativo fa fatica a tirare fuori professionalità al passo con le evoluzioni tecnologiche.

Secondo Adapt servono anche nuove regole per la ricerca. Ci spiega perché?

È necessario costruire e incentivare un ecosistema della ricerca, funzionale alla mobilità intersettoriale dei ricercatori all’interno dell’area europea per la ricerca, che tenga conto delle competenze professionali così come delle dinamiche politico-istituzionali e delle infrastrutture presenti nei territori in cui vengono condotte le attività di innovazione. Oggi un ricercatore non ha un inquadramento contrattuale specifico, spesso si trova ingabbiato in condizioni alle quali non vorrebbe sottostare. È a queste istanze di riconoscimento e valorizzazione del lavoro di ricerca che vorremmo rispondere anche in termini normativi e di riconoscimento della relativa figura professionale che sta al cuore dell’ecosistema di Industry 4.0, motivo per cui abbiamo presentato un progetto di legge ad hoc.

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