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Imprese, l’open innovation cambia le “regole del gioco”

Le vecchie strategie standardizzate insegnate nelle business school non trovano più applicazione. Limitarsi a spingere sui pedali non serve più

Pubblicato il 18 Dic 2016

Luciana Maci

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Il termine “open innovation” è stato il mantra del 2016 e certamente risuonerà ancora nel 2017. Non c’è stata azienda, almeno a parole, che non abbia affermato l’importanza di innovare coinvolgendo soggetti esterni come startup, università e centri di ricerca. A supporto di questa tendenza, per il momento ancora alle fasi iniziali, ci sono state anche alcune decisioni politiche. Nel piano Industria 4.0 del governo Renzi, le cui misure sono state già in parte introdotte all’interno della legge di stabilità, la maggior parte degli interventi sembrano andare nella direzione dell’open innovation: solo per fare qualche esempio, la detrazione fiscale al 30% per investimenti fino a 1 milione di euro in startup e Pmi innovative per tre anni; l’iperammoramento al 250% per gli investimenti in beni ad alto contenuto tecnologico che permettano l’innovazione digitale delle fabbriche; il credito d’imposta ricerca&sviluppo che fino al 2020 raddoppia al 50% (dall’attuale 25%); gli investimenti in startup da parte dell’Inail.

L’attenzione verso questo nuovo approccio al cambiamento da parte delle aziende riflette un trend che a livello mondiale si sta imponendo con sempre maggiore forza e che porta le imprese ad aprirsi e a trasformare i propri modelli organizzativi. “Le regole del gioco, che stabilivano chi vinceva e chi perdeva nel business, stanno cambiando”, scrive Jim Whitehurst, presidente e CEO di Red Hat, nel suo nuovo libro L’organizzazione aperta (Garzanti). “Le vecchie strategie standardizzate che si imparavano nelle business school, come le economie di scala, la scarsità e il vantaggio posizionale, non trovano più applicazione. Continuare a fare quello che facevano prima, limitandosi a spingere più forte sui pedali, non serve più”. a l’Italia quanto ha scommesso concretamente sull’open innovation nel 2016?

Una ricerca della School of Management del Politecnico di Milano che ha preso in esame 205 risposte di Chief Information Officer e Chief Innovation Officer di aziende e Pubbliche amministrazioni del nostro Paese ha evidenziato una realtà ambigua: il 45% delle imprese intervistate non ha dato vita nel 2016 ad alcuna iniziativa di innovazione aperta; il 35% sta collaborando con università e centri di ricerca, il 20% realizza partner scouting su aziende consolidate e il 18% sviluppa progetti di startup intelligence. Solo 11 imprese su cento hanno promosso call4ideas, il 9% ha lanciato hackathon e il 7% ha messo a segno acquisizioni di società neonate (tra le operazioni più significative, l’acquisto di T-Frutta da parte di SIA, conclusa a febbraio, e quello di FABtotum e di Smart Touch da parte del gruppo Zucchetti).

Le startup dovrebbero essere le naturali protagoniste dell’open innovation ma le aziende italiane sembrano ancora poco pronte a coinvolgerle. Il 70% di quelle intervistate dichiara di non aver ancora scelto una startup come fornitore, soprattutto per mancanza di risorse e di condizioni (68%). Per un altro 53% a frenare le aziende nell’intraprendere relazioni più strette con le nuove imprese è anche la mancata strutturazione e preparazione da parte delle funzioni aziendali interne (principalmente ict, marketing, acquisti, r&s). Tuttavia, il 30% dei rispondenti alla survey afferma di avere collaborazioni attive con startup come fornitori. Nel caso di grandissime imprese la percentuale di risposte sale, arrivando al 46%, mentre per le medie imprese e le grandi non supera il 22%.

Cosa ci guadagnano le aziende ad avere le startup come fornitrici? Per il 57% di quelle che ne fanno uso, i vantaggi maggiori sono in termini di apertura culturale in azienda e di contaminazione continua. Ma il beneficio, per il 55% delle imprese, arriva anche dallo sfruttare le innovazioni provenienti dalle startup per il lancio di nuovi prodotti e/o servizi innovativi e per aprirsi nuovi mercati. Un 45% crede invece che sia sicuramente vantaggiosa la riduzione del time to market garantita dalla collaborazione con le startup e l’accelerazione del processo di sviluppo esternalizzandone una parte. In genere, poi, sono in molti (il 41%) a ritenere che avere a che fare con una struttura organizzativa, snella e flessibile, tipica delle startup, rende più semplice il coordinamento. Insomma, le aziende che si sono già rivolte alle startup per fare innovazione stanno sperimentando direttamente quanto siano efficaci per favorire la diffusione di una cultura aziendale più agile e aperta e in grado di contrastare più facilmente la tanto temuta disruption digitale.

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