L'ANALISI

Web tax, si rischia l’effetto boomerang

Le norme all’esame del Senato potrebbero rivelarsi inutili per la lotta all’evasione e dannose per l’immagine del Paese. Regolare la digital economy a livello nazionale pone il problema isolamento. L’analisi di Christian Montinari, commercialista partner del dipartimento Tax di Dla Piper

Pubblicato il 12 Mag 2017

Christian Montinari, partner dipartimento Tax di Dla Piper

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Tra i molti dossier che occupano le scrivanie del Governo e delle commissioni parlamentari, uno in particolare, che in realtà come un uccello notturno aveva fatto capolino nel crepuscolo del 2013 per poi presto rifugiarsi nell’ombra scacciato dal nuovo Governo Renzi, sembra pronto ad approfittare di nuovi chiari di luna. Parliamo della cosiddetta web tax, anche se, nelle multiformi sembianze in cui viene descritta, non si tratta di una vera e propria nuova imposta, quanto piuttosto di un insieme di misure per tassare in Italia, dove si presume vengano prodotti, i redditi realizzati dalle multinazionali del web.

La digital economy, su cui da tempo sono accesi i fari dell’Ocse, si caratterizza per la capacità delle imprese di fornire sul web servizi di natura immateriale, sfuggendo così ai sistemi di allarme progettati dalla normativa fiscale, che alla rilevazione di determinati indici di “presenza economica” nel territorio dello Stato, consentono di “catturare” i redditi d’impresa prodotti da soggetti non residenti. Questo concetto ha un nome: stabile organizzazione.

Sul tema interviene quella che tra le varie proposte di legge finora presentate si trova nello stadio più avanzato di discussione, il Ddl 2526, primo firmatario l’onorevole Massimo Mucchetti. Il disegno di legge introdurrebbe rilevanti modifiche alla definizione domestica di stabile organizzazione, derogando al concetto convenzionalmente accettato a livello Ocse. La proposta di legge afferma che “indipendentemente dalla presenza di mezzi materiali fissi” nel territorio dello Stato, sussiste una stabile organizzazione “occulta” quando: (a) vengono svolte in Italia in via continuativa “attività digitali pienamente dematerializzate”; (b) l’impresa non residente manifesta una presenza significativa “sul circuito digitale”, attraverso la conclusione di più di 500 transazioni a semestre, che comportino ricavi per almeno un milione di euro ‒ si ritiene in ciascun periodo d’imposta.

Al verificarsi di tali requisiti l’Agenzia delle Entrate invita il soggetto non residente a “regolarizzare” la propria posizione. Tecnicamente, si tratta di una presunzione legale “relativa”, in quanto viene fatta salva la prova contraria. In altre parole, la multinazionale del web ha la chance per dimostrare che l’Agenzia si è sbagliata (interpello disapplicativo) oppure può chiedere il Fisco a sedersi a un tavolo per discutere insieme che cosa tassare e come (ruling internazionale).

Ma se nei 30 giorni successivi all’invito non si perviene alla “regolarizzazione”, il Fisco ha il potere di riprendere a tassazione il reddito del soggetto non residente (determinato in modo induttivo, cioè sulla base di presunzioni e prescindendo dai dati contabili). La nuova norma suscita più di una perplessità. La prima e la più importante porta a chiedersi se un problema di tale magnitudine e complessità, che intreccia dinamiche globali e soprattutto l’infuocato palcoscenico della concorrenza fiscale tra gli Stati, possa essere affrontato dall’Italia, da sola. Come insegna la sventurata esperienza della Tobin Tax, introdotta dal Governo Monti quando ad oggi un accordo non è stato raggiunto a livello europeo, che ha portato a una drastica riduzione del numero di transazioni di borsa effettuate in Italia a fronte di un risibile incremento di gettito, in risposta a problemi globali vanno costruite soluzioni globali.

Venendo poi al piano strettamente giuridico, per il fondamentale principio della gerarchia delle fonti, è da ritenere che la nuova definizione di stabile organizzazione occulta si troverebbe a soccombere in tutti quei casi in cui esiste un trattato bilaterale con il Paese di residenza dell’impresa estera che fissa i contorni del concetto secondo i canoni Ocse. La nuova presunzione, che ha natura puramente domestica, esperirebbe la sua efficacia nel limitato novero di casi in cui l’impresa estera sia residente in uno Stato che non abbia in vigore un trattato con l’Italia. Non può passare in secondo piano, poi, l’estrema indeterminatezza delle espressioni utilizzate: quando si può parlare di “attività digitale pienamente dematerializzata”? Cosa significa in concreto “presenza sul circuito digitale”?

Il fatto che la definizione della prima sia demandata dal testo del Ddl a un provvedimento dell’Agenzia delle entrate sembra porsi in violazione dell’art. 23 della Costituzione, secondo il quale è la legge a dovere definire il presupposto per l’applicazione dell’imposta. La misura legislativa all’esame del Senato ha il pregio di alimentare il dibattito circa il problema nevralgico dell’aggiornamento del concetto di stabile organizzazione con riferimento alla digital economy, ma si scontra con le difficoltà insite nell’agire in modo isolato dal contesto internazionale. Su tale versante, rilevanti novità sono attese già dal prossimo vertice del G7 in programma a Bari. Allo stato attuale, il rischio è che la misura, se approvata, si riveli sostanzialmente inutile in termini di recupero di gettito e dannosa per l’immagine del Paese. L’uccello notturno di cui si parlava, più che quelle del falco, assumerebbe le sembianze dell’allocco.

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