FISCO

Facebook “bypassa” le tasse britanniche

Un’inchiesta dell’Indipendent svela gli stratagemmi fiscali del social network che “esporta” i profitti in Irlanda dove le imposte sono più basse. Il partito laburista pronto a presentare un’interrogazione parlamentare al ministro del Tesoro di Sua Maestà

Pubblicato il 11 Ott 2012

Federica Meta

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“Antisocial network”. Con questo titolo il quotidiano britannico The Indipendent dà la notizia che Facebook, avrebbe pagato solo 238mila sterline di tasse per le sue attività nel Regno Unito a fronte d’introiti pari a 175 milioni.

L’escamotage utilizzato è del tutto legale ed è per altro prassi comune per i colossi dell’era 2.0 come Apple, Google e Amazon: “esportare” i profitti in Irlanda, dove si trova il quartier generale di Facebook per l’Europa (Amazon ha invece scelto invece il Lussemburgo). La cifra di 175 milioni si sterline è stata fornita dalla società di analisi indipendente Enders Analysis mentre i dati fiscali del gigante da 1 miliardo di utenti sono stati reperiti attraverso visure camerali.

“E’ immorale che queste società di successo non paghino le tasse nei paesi in cui sono basate e fanno profitti – commenta all’Indipendent John Mann, deputato laburista e membro della commissione parlamentare del Tesoro – Traggono immensi benefici dall’infrastruttura internet del nostro Paese ma non fanno nulla per contribuire”.

Il partito laburista presenterà un’interrogazione in parlamento per chiedere al ministero del Tesoro di esaminare la dichiarazione delle imposte di Facebook e vedere se è possibile prendere provvedimenti.

Facebook non ha voluto commentare sulla stima degli affari condotti nel Regno Unito e attraverso un portavoce ha fatto sapere: “come è normale che sia per un’azienda presente in decine di nazioni sparse per il mondo, compiliamo report sulle nostre attività locali; queste informazioni peró non rispecchiano necessariamente le performance globali quindi sarebbe un errore tirare delle conclusioni sulla base di questi report”.

Come accennato prima, l’escamotage fiscale è utilizzato anche da altre Web company, Google compreso. A questo proposito nto che il governo francese sta affilando le armi nei confronti di Google, affinché le grandi net company a stelle strisce siano costrette a lasciare in Francia più tasse di quanto non facciano oggi. A luglio il governo ha affidato al consigliere di Stato Pierre Collin e all’ispettore delle finanze Nicolas Colin il compito di redigere un report dettagliato sul regime fiscale di Google, Microsoft, Amazon e Facebook. L’esito dell’indagine sarà pronto a dicembre.

Da tempo la Francia ha l’intenzione di modificare a proprio vantaggio il regime fiscale delle net company Usa, che eludono le tasse, in maniera del tutto lecita, sfruttando meccanismi fiscali favorevoli.

Google France registra un giro d’affari annuo compreso fra 1,25 e 1,4 miliardi di euro nel paese transalpino, dove tuttavia paga appena 32 milioni di euro di tasse. Secondo stime di Capgemini, il giro d’affari del motore di ricerca in Francia derivante dal business pubblicitario si aggira intorno al miliardo di euro. Le attività di Google al di fuori degli Usa sono consolidate nella sua filiale irlandese, un porto fiscale favorevole non soltanto per Google, ma anche per Apple e Microsoft, che hanno in Irlanda la loro sede europea.

L’imposta sulle società applicata in Irlanda è pari al 12,5% degli utili, a fronte del 33,3% in vigore in Francia e del 35% negli Stati Uniti. Grazie ad un semplice meccanismo di triangolazione con filiali in paradisi fiscali, fra cui Porto Rico, Bermuda o Antille olandesi, come svelato nel 2010 da Bloomberg, le aziende Usa riescono a godere di sostanziali vantaggi fiscali fatturando le vendite extra Usa in Irlanda. Ma la Francia non ci sta più.

Questa manovra di “elusione” – conosciuta in gergo come “Dutch Sandwich” e “Double Irish” – ha permesso alla società di Mountain View di ridurre l’aliquota di imposta (tax rate) nei confronti dei fisco straniero al 2,4%. “E’ un’aliquota sorprendentemente bassa”, nota Martin Sullivan, economista ed ex consigliere dell’Ufficio delle entrate del Tesoro americano. “La società opera in Paesi con pressioni fiscali elevate, senza dubbio superiori al 20%”. L’aliquota applicata ai profitti delle big corporation negli Stati Uniti è in media del 35%, mentre nel Regno Unito, secondo grande mercato per giro d’affari di Google, si aggira intorno al 28%.

D’altra parte non si può dire che Google sia l’unica a farsi i “panini all’olandese”. Il re dei motori di ricerca ha adottato strumenti già impiegati da altri operatori del comparto hi-tech tra cui Facebook e Microsoft. Si tratta di schemi che traggono vantaggio dal codice tributario irlandese, che consente di veicolare profitti dentro e fuori sussidiarie locali, eludendo buona parte del 12,5% di imposte locali sugli utili. I tesoretti finiscono così in isole-far west fiscali, come Bermuda o Saint Lucia, dove non esiste alcuna forma di imposizione.

Niente di illecito, dunque. Il sistema chiamato “Double Irish” (da doppia entrata) non comporta l’accusa di evasione fiscale. “Si tratta di una pratica ampiamente utilizzata da altre imprese globali che operano in diversi settori”, spiega Jane Penner, portavoce di Mountain View. Facebook ha messo a punto un sistema simile che consente di veicolare parte dei profitti alle isole Cayman. Tecnicamente il metodo funziona con il “transfer pricing”, ovvero movimenti contabili tra società controllate che consentono di spostare i proventi in sussidiarie con sede nei paradisi fiscali, e di allocare le spese in quelle che operano in Paesi con aliquote elevate. L’operazione si traduce per Google in un rafforzamento degli utili pari al 26% lo scorso anno. Secondo un’analisi di mercato, se la società dovesse rispettare l’aliquota Usa del 35% per tutti i suoi profitti, il valore del titolo sarebbe di 100 dollari inferiore.

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