Trovato (Ibl): “Web tax inefficace, serve più concorrenza fiscale”

L’esperto dell’Istituto Bruno Leoni: “I governi europei tengano basse le aliquote per attrarre investimenti”

Pubblicato il 18 Mar 2014

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“Si può discutere se i tradizionali meccanismi fiscali siano adeguati in un’epoca in cui l’economia digitale ha abbattuto distanze e costi di transazione, ma quello che non si può fare è scegliere i principi che più fanno comodo a seconda dell’identità del contribuente: non si può decidere di tassare solo gli over the top”. Massimiliano Trovato, fellow dell’Istituto Bruno Leoni, boccia il tentativo dei governi europei di applicare tassazioni ad hoc per le web company.
Trovato, i governi europei – Francia, Italia e in parte anche la Germania – lamentano un’emorragia fiscale collegata agli Ott che producono reddito in alcuni stati ma pagano tasse in altri dove l’imposizione fiscale è più bassa. Le che ne pensa?
Mi pare più una questione di principio, per alcuni versi anche demagogica, che rischia di finire in una bolla di sapone.
Però non può negare che esista un sistema fiscale non adeguato all’economia digitale.
Ecco, il punto è proprio questo: l’adeguatezza di un paradigma fiscale che oggi impone di pagare le tasse laddove si produce e dove ci sono i dipendenti – è vero che Google, ad esempio, ha dipendenti anche in Italia ma sono marginali. Se si decide di cambiare il paradigma e optare per il principio secondo cui si paga laddove si partecipa al mercato, il cambio di passo deve interessare anche le aziende che operano in settori “fisici”, altrimenti si rischia di rendere l’impalcatura fiscale poco coerente. Senza contare il problema della doppia imposizione fiscale.
Ovvero?
Se anche le agenzie fiscali nazionali certifichino che le web company debbano pagare le tasse nel paese dove si produce reddito, le aziende potrebbero trovarsi a dover pagare due volte: una nel paese di residenza fiscale e l’altra nello stato dove si vendono i servizi. Con impatti negativi sulle capacità di investimento delle imprese.
C’è una soluzione che soddisfa le esigenze dei governi e dell’impresa?
C’è e si chiama concorrenza fiscale. Si tratta di uno strumento importante per incentivare anche gli stati più grandi, tendenzialmente più propensi a tassare in maniera massiccia, a tenere le aliquote più basse per attrarre le aziende straniere, prime fra tutte quelle del digitale. Inoltre si rispetterebbe appieno il principio secondo cui un’azienda deve decidere liberamente stabilire la propria sede laddive si rilevino condizioni, fiscali e non, adeguate alle sue esigenze.
Ma così non si rischia una corsa fiscale al ribasso?
Prima di tutto va detto che queste policies hanno un impatto al margine. Nel senso che una modesta riduzione del carico fiscale sulle imprese avrà un modesto effetto sull’aumento dell’attrattività di un paese. Bisogna saper modulare questi interventi, ma si tratta di un problema squisitamente politico non solo di regole fiscali.
Quindi non è sufficiente abbassare le tasse alle imprese per rendere un paese più attrattivo per gli investitori stranieri?
Ovviamente no. Vanno messe a sistema policies a tutto campo che investano il mercato del lavoro per renderlo più flessibile e quello della pubblica amministrazione da liberare da lacci e lacciuoli della burocrazia. Si tratta – e questo lo voglio sottolineare con forza – di iniziative che andrebbero a favore solo degli investitori stranieri ma anche di quelli italiani sia che operino nel mondo fisico sia che lo facciano in quello digitale.

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