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Digital art, Brunone: “Il vero artista non è un fruitore, ma inventa nuovi strumenti”

Il docente dell’Accademia di Brera: utilizzare linguaggi computerizzati e device multimediali non basta. Se non si è tecnologici nel pensiero non si va da nessuna parte

Pubblicato il 28 Feb 2015

Domenico Aliperto

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Tullio Brunone non è semplicemente (si fa per dire) docente di di Linguaggi multimediali al dipartimento di Nuove tecnologie per l’arte dell’Accademia di Brera. È lui stesso un artista, un innovatore, un early adopter delle soluzioni che nel corso della seconda metà del XX secolo hanno trasformato il concetto di arte contemporanea: dalla ripresa video ai primi computer fino agli algoritmi che costruiscono un’opera attraverso la Rete. Ed è forse proprio per questo che, ancor più che suggerire quali piattaforme e dispositivi un creativo dovrebbe utilizzare per innovare nel campo dell’arte multimediale, Brunone invita i più ambiziosi a “inventare nuovi strumenti”.

Brunone, l’artista oggi è anche un tecnico?
Di sicuro non deve essere un mero utilizzatore. Deve lavorare sulla realtà virtuale e su quella aumentata come strumento, ma il salto avviene quando comincia la ricerca dell’ideologia filosofica. Bisogna essere tecnologici nel pensiero. Prenda l’installazione “Il nuotatore (va troppo spesso a Heidelberg)” del 1984, realizzata quando non c’erano software e hardware che oggi sono dati per scontati: l’opera è stata realizzata con 12 videocamere fissate sul bordo di una piscina a pelo d’acqua sincronizzate su 24 monitor attraverso 13 programmi video e un orologio elettronico. Un sistema costruito ad hoc per correggere l’asincronia prodotta dalle testine analogiche.

Ora, per l’appunto, ci pensa il digitale.
I computer non fanno altro che implementare il lavoro delle macchine, in un certo senso stiamo rivivendo la stessa rivoluzione che nel ‘400 riguardò il passaggio dall’affresco all’olio. Cambia il concetto di tempo, di prospettiva, di spazio, e quindi anche la concezione filosofica della centralità dell’uomo. Dobbiamo affrontare questa sfida come fosse una nuova ricerca leonardesca, e come Leonardo progettare nuovi strumenti.

Cosa si impara all’Accademia di Brera?
Penso a un lavoro basato su una piccola intuizione di un gruppo di miei studenti: questi ragazzi avevano notato che nella periferia di Milano c’era un gruppo di persone che armate di macchina fotografica documentava la vita di alcuni uccelli migratori. Approfondendo, hanno scoperto che in realtà si tratta di una vera e propria organizzazione, una rete internazionale che studia le peregrinazioni dei volatili, producendo e raccogliendo archivi, fotografie, suoni. I ragazzi stanno quindi compiendo elaborazioni su questo materiale, in un lavoro che coinvolge diverse discipline, dalla ricerca sociale alla street art, passando per il video e arrivando al teatro e al cinema, con un’operazione di moltiplicazione che troverà spazio su un sito web in costruzione. Per fare questi lavori hanno usato sistemi di controllo delle telecamere e droni autocostruiti per cercare le immagini giuste senza disturbare gli animali.

Come si muove il mercato in questo contesto?
Il mercato vuole sempre, prima di tutto, il manufatto, l’oggetto. E il problema è che spesso l’opera contemporanea non ha l’oggetto, a eccezione del proiettore e del computer. In realtà anche i galleristi stanno cominciando a muoversi, ma come sempre in ritardo. In questo momento gli addetti ai lavori stanno digerendo la ricerca artistica degli anni ’80 e ’90, mentre dedicano poca attenzione a quello che avviene nella sperimentazione. Di buono c’è che la ricerca visiva ha prodotto tanto materiale e sta affascinando il pubblico con una nuova visione estetica. Ne beneficiano tutti i circuiti paralleli, a partire dai cosiddetti “eventi”. È soprattutto nell’ambito della comunicazione commerciale che i ragazzi dell’Accademia riescono a ottenere delle commissioni.

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