IL CASO

Spotify mette al bando le “mazzette” sulle playlist

L’azienda svedese rivede termini e condizioni per la pubblicazione di gruppi di brani. E dopo un articolo-denuncia comparso su Billboard vieta la “payola” da parte di case discografiche ai digital influencer. “Una pratica che nuoce agli artisti e ai loro fan”

Pubblicato il 21 Ago 2015

A.S.

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Il nome con cui la pratica è nota è “payola”, “mazzetta”: meccanismo comune anche nel mondo della musica, un tempo radiofonica, ora in streaming. Si chiamavano “payola” le tangenti che le etichette discografiche pagavano ai dj radiofonici. E si chiamano “payola”, oggi, le bustarelle che arrivano ai digital influencer di Spotify, quelli che pubblicano le playlist più ascoltate, per inserire nelle raccolte di brani artisti e canzoni che hanno bisogno di promozione. Una soluzione che non è andata giù al management dell’applicazione, che nella prossima revisione dei termini e delle condizioni di utilizzo del servizio ha intenzione di “proibire esplicitamente” di accettare denaro e altri tipi di ricompense per influenzare le playlist.

Su Spotify, che conta su 75 milioni di utenti ed è il leader di questo mercato, con numeri più consistenti rispetto a Deezer e agli analoghi servizi offerti da Google ed Apple, ricostruisce il Financial Times, ci sono tre tipi di playlist: quelle create direttamente dalla casa madre, quelle create dalle etichette discografiche e quelle messe online dai singoli utenti. Tutte e tre possono potenzialmente attirare i “like” di un ampio numero di ascoltatori, arrivando anche a milioni di ascoltatori. “Siamo assolutamente contro ogni tipo di pagamento per le playlist – è la posizione di Spotify – E’ un male per gli artisti ed è un male per i loro fan”.

Quello di pagare perché un brano venga promosso è un fenomeno che aveva iniziato a diffondersi già negli anni ’50, quando venne alla luce lo scandalo di conduttori radiofonici pagati per promuovere alcuni brani selezionati dalle major, ma il successo dei servizi in streaming degli ultimi anni ha aperto nuove possibilità per i discografici più smaliziati, in un campo ancora non regolato per evitare i “payola

Secondo i dati pubblicati recentemente da Billboard il prezzo corrisposto a un influencer per inserire un brano in playlist può variare dai 2mila dollari dato a chi conta su qualche migliaio di follower fino ai 10mila dollari per gli autori delle raccolte di brani più popolari.

La decisione di Spotify, secondo Mark Mulligan, analista specializzato di Media Research, viene dal fatto che sempre più il successo di un servizio di streaming musicale è dettato dalla qualità delle proprie playlist, e per essere competitivo e mantenere la leadership “Spotify ha bisogno di dimostrare di essere più bianco del bianco”. Anche per questo i vertici dell’azienda hanno già annunciato che approfondiranno ogni accusa di playlist a pagamento, e che “prenderanno le contromisure del caso contro gli utenti che violano le regole”.

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