TRASFORMAZIONE

Smart working banco di prova per il top management

Le nuove tecnologie imporranno un modello per misurare anche la smart leadership

Pubblicato il 11 Nov 2015

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Premessa indispensabile al cambiamento o supporto operativo di un processo di trasformazione culturale? Per molti non è ancora chiaro il ruolo della tecnologia digitale nell’adozione di politiche di smart working. Soprattutto, spesso non è chiaro come procedere lungo il processo di integrazione delle infrastrutture fisiche e virtuali con le nuove esigenze dei collaboratori, fuori e dentro l’ufficio.

Forse è presto per parlare di leadership digitale, specialmente in un Paese come l’Italia. Ma è quello l’orizzonte a cui andare incontro secondo Filippo Muzi Falconi, a.d. di Methodos. “È l’anello più abilitante, ma allo stesso tempo il più debole e di potenziale ostacolo nella corsa alla vera innovazione”, dice il numero uno della società di consulenza specializzata in change management. “Mi capita di affiancare clienti che partono dalla riorganizzazione degli spazi, molto spesso però riservata solo a quadri e collaboratori, mentre il top management resta asserragliato nei propri uffici. E quanti leader possono dire di essere dei punti di riferimento anche nelle community on line? Correggere questa impostazione significa cominciare a misurare anche la smart leadership”.

Del resto è la logica del social network ad aver innescato il cambiamento, almeno secondo Luca Zerminiani, Senior System Engineering Manager di VMware, che sostiene che l’interazione sperimentata sulle chat ha contaminato in modo trasversale anche il mondo del lavoro. “La possibilità di ricevere feedback continui sia dai clienti sia dai collaboratori porta l’utente professionale a voler essere libero di lavorare su qualsiasi piattaforma, e l’IT ha il compito di orchestrare le diverse architetture”.

Benjamin Jolivet, country manager per l’Italia di Citrix, parla addirittura di software defined workplace. “Lo spazio fisico avrà sempre più la funzione principale di aiutare l’utente a vivere al meglio la propria esperienza digitale. Per questo, per costruire un corretto ambiente per lo smart working bisogna prima di ogni altra cosa ascoltare le esigenze dei collaboratori, analizzare i flussi di lavoro e integrarli in un’unica cornice che li armonizzi. E in questo senso”, chiosa Jolivet, “i device non sono una complicazione, ma un abilitatore di agilità. Dobbiamo avere l’intelligenza di capire dove e in che modo vanno inseriti nel sistema”.

Anche perché lo smart working non è solo sinonimo di lavoro in mobilità. “Direi piuttosto che è proprio lo strumento in sé a cambiare il modo in cui ci approcciamo al lavoro”, spiega Stefano Mattevi, responsabile Segment Marketing Direct Channel – Business di Telecom Italia. “Il traffico dati generato da uno smartphone mediamente passa per il 75% su reti Wi-fi. Quindi sono la semplicità d’uso e la gestualità gli elementi fondamentali per stabilire una corretta “dieta” digitale, e chiediamo alle applicazioni aziendali la stessa usabilità che hanno le app commerciali. Quando parliamo di smart working”, rilancia Mattevi, “ci dovremmo riferire a soluzioni che identificano l’individuo con gli strumenti che utilizza”.Ne consegue che non c’è una ricetta univoca. “Il meglio non è lo stesso per tutti”, afferma Vincenzo Pagliaro, managing director di CSC Italia. “Oggi la nostra vision si concentra sullo stile di lavoro peculiare di ogni organizzazione, rispetto al quale scegliamo le migliori tecnologie disponibili, le assembliamo e le orchestriamo per dare vita a processi operativi analizzabili e capaci di favorire la produttività dei collaboratori alla scrivania, in spazi condivisi o a casa”. Un approccio condiviso anche da Arkadin, che considera la tecnologia unificata come una roadmap da percorrere lungo le tracce dell’utente. “Mi capita di sentire ragionamenti un po’ strani”, confessa Andrea Carboni, Head of Country & Sales Director Italy della società. “I clienti dichiarano di aver comprato molto hardware e di volerlo scaricare a terra, mettere all’opera. Ma il processo dovrebbe essere inverso, basato sull’ascolto e sulle reali esigenze dettate dalla user experience, a maggior ragione quando il collaboratore ritiene di poter essere più produttivo fuori dall’ufficio”.

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