LA POLEMICA

Discografici contro la Ue: “Dati fuorvianti sulla pirateria”

La Ifpi bacchetta lo studio commissionato da Bruxelles secondo cui il download illegale non incide negativamente sulle vendite legali online

Pubblicato il 21 Mar 2013

P.A.

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L’industria discografica si scaglia contro l’Unione Europea, rea di aver pubblicato uno studio secondo cui il download pirata di musica non incide negativamente sulle vendite legali di brani online e non deve preoccupare i detentori del copyright. Nel mirino dell’Ifpi (International federation of the phonographic industry), la federazione che rappresenta l’industria discografica mondiale, è finito il report ‘Digital Music Consumption on the Internet: Evidence from Clickstream Data’, pubblicato ieri dal Joint Research Centre della Commissione Ue, che a sorpresa “assolve” la musica pirata: “Anche se c’è violazione del diritto d’autore – scrivono gli autori del rapporto – ci sono poche possibilità che le entrate della musica digitale possano soffrirne (…) da questo punto di vista, le nostre conclusioni suggeriscono che la pirateria non deve essere considerato come un grande problema per i titolari dei diritti del mondo dematerializzato”. Lo studio è stato realizzato esaminando i comportamenti di un campione di 16mila cittadini europei.

Puntuali le critiche dell’Ifpi, che sottolinea diversi errori emersi dallo studio: “Manca una metodologia accurata nella misurazione dei dati, con particolare riferimento alla capacità della pirateria di condizionare negativamente i profitti generati dai servizi digitali offerti dall’industria musicale”.

Le conclusioni evidenziate dallo studio Jrc, risultano, in realtà, “errate e fuorvianti” secondo Ifpi, per numerosi elementi: “i dati si basano su una visione limitata del mercato (solo download, escludendo di fatto i servizi streaming e le altre forme di distribuzione) e sono contraddetti da moltissime ricerche che confermano l’impatto negativo della pirateria sul commercio di musica legale”. “Lo studio – continua la nota – considera il numero dei click ai siti che secondo Jrc contengono musica, ma non vengono misurate o analizzate le transazioni musicali e le conclusioni si basano, quindi, su approssimazioni e stime dell’attività musicale. A contraddire il Rapporto di Jrc, i risultati di diversi studi che hanno misurato l’impatto della legge francese contro la pirateria, Hadopi, sulle vendite di musica che dalla sua entrata in vigore hanno registrato un aumento del 20-25% rispetto agli altri paesi considerati nel campione Jrc. I generi musicali più venduti sono stati quelli che subivano maggiormente la pirateria”. “E poi ancora – chiude la nota – l’applicazione della direttiva Ipred ha portato nel 2009 a un calo della pirateria e a una crescita del 27% degli acquisti di cd. Anche la recente chiusura di Megaupload ha determinato un incremento delle vendite di film online”.

Altro errore dello studio Jrc, secondo l’Ifpi, è la conclusione “che la pirateria non danneggia i ricavi digitali, perché si basa su una visione ristretta di questi, considerando solo i download, ma questi ultimi, in realtà, sono solo una fonte dei ricavi del mercato della musica digitale. La pubblicità nei video streaming o gli abbonamenti rappresentano, per esempio, già il 30% delle revenue”.

Anche Spotify, il popolare servizio di audio streaming che raccoglie 5 milioni di utenti a livello globale (sbarcato un mese fa in Italia), critica il risultato dello studio commissionato dall’Ue. “Digital Music Consumption on the Internet: Evidence from Clickstream Data’ presenta numerosi difetti – dice Will Page, Director of economics di Spotify – La stretta definizione del mercato, individuate dagli autori è sconcertante e profondamente fuorviante. In particolare, l’omissione di riferimenti ai servizi di streaming online dimostra l’incapacità di apprezzare e misurare l’assemblaggio completo del mercato digitale. Ne risulta che gli autori non conoscano in maniera appropriata la competizione scorretta che la pirateria determina nei confronti dei servizi di streaming legali. Inoltre, il report non analizza correttamente il modo in cui i consumatori possano migrare da servizi illegali a servizi legali come ad esempio Spotify“.

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