REGIONI & ICT

Angelucci: “Le in house mettono fuori gioco le Pmi innovative”

Il presidente di Assinform: “Il miliardo di fatturato assorbito da queste società blocca il mercato”

Pubblicato il 05 Giu 2012

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Costo del lavoro in genere più alto di quello applicato dalle aziende private, attività di intermediazione PA-fornitori che molto spesso aggravano il già pesante ritardo dei tempi di pagamento da parte degli enti e – cosa più importante – un fatturato pari a 1 miliardo di euro che rappresenta il 25% del mercato dell’IT pubblico (pari al 5% dell’intero giro d’affari italiano del comparto, secondo l’ultimo rapporto Assinform), “sottratto” ai privati.
Sono questi i motivi che portano le aziende di Information Technology a “diffidare” delle società in house e a chiedere a gran voce un cambio di marcia in un momento in cui il governo ha varato un grande piano di liberalizzazioni. A chiarire la posizione del mercato, il presidente di Assinform Paolo Angelucci.
Presidente Angelucci, le società in house sono “cattive”?
Guardi, l’in house non è buono o cattivo di per sé: dipende da cosa fanno le società che hanno in affidamento l’IT pubblico e dalle loro dimensioni. L’in house “cattivo” – utilizzo questo termine per semplificare ovviamente – è quello delle piccole aziende para-statali, quelle comunali soprattutto, che sono state create per gestire piccoli aspetti della tecnologia, ma che in realtà rispondono a logiche clientelari che nulla hanno a che fare con il buon funzionamento dell’amministrazione. In altre parole sono state pensate per aggirare le norme sul pubblico impiego: la pubblica amministrazione non può assumere, allora dirotta le risorse sulla società in house. Per l’in house regionale il discorso è più complesso.
Cioè?
Quello che non convince delle società regionali è soprattutto la tendenza ad operare in affidamento diretto senza gara, situazione – questa – che contribuisce a strozzare il mercato mettendo fuori gioco le imprese medio-piccole che caratterizzano il tessuto produttivo italiano. Si tratta di una condizione che non facilita in alcun modo la competizione: quel miliardo che manca al mercato, assorbito dall’in house, non favorisce infatti la nascita di realtà nuove in grado di competere con soggetti stranieri.
A suo avviso come dovrebbero operare le società in house regionali?
L’in house “buono” è quello che funziona da stazione appaltante che decide le regole e aggrega la domanda, riversandola sul mercato e generando un’offerta qualificata in grado di creare realmente valore all’interno dell’amministrazione pubblica. Purtroppo, ad oggi, la maggior parte di queste società non lavora in questo modo.
Le aziende private puntano il dito anche contro il costo del lavoro applicato da queste società. Ci spiega i motivi?
Se analizziamo i bilanci di queste realtà emerge che il loro costo del lavoro per risorsa è molto più alto rispetto alle aziende private di settore, così come quello dei consigli di amministrazione. Inoltre il loro livello di indebitamento è superiore rispetto a quello medio dell’IT italiano privato.
E questo cosa comporta?
L’effetto più evidente è che una società pubblica fa meno fatica di una privata ad accedere a finanziamenti del sistema bancario. E questo ovviamente falsa lo scenario competitivo. Senza contare i ritardi nei tempi di pagamento che si aggirano sui sei mesi ma che arrivano a sforare molto facilmente l’anno. Ritardi che strozzano le imprese, ancor più in periodi di crisi e di credit crunch come questo che stiamo attraversando.
Perché una pubblica amministrazione dovrebbe affidarsi al mercato e non a una società di cui detiene la maggioranza delle azioni?
Glielo spiego con una frase concisa ma allo stesso tempo efficace: se il privato non funziona si può cambiare, la società in house no. Inoltre le aziende private hanno già a disposizione prodotti e servizi innovativi da offrire alla pubblica amministrazione: in questo modo si “bypassa” la fase della progettazione che toglie tempo e denaro ai progetti di digitalizzazione del comparto pubblico.

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