OSSERVATORIO AGENDA DIGITALE

E-gov, il paradosso italiano

La PA è stata oggetto di innumerevoli progetti e destinataria di notevoli risorse economiche. Ma l’eccesso di burocrazia e la mancanza di un forte commitment politico sono stati un freno. Michele Benedetti (Polimi): “Amministratori e dirigenti poco lungimiranti”

Pubblicato il 04 Feb 2013

Claudio Rorato

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Se Lewis Carroll fosse qui tra noi, avrebbe trovato ampi spunti per pensare non ad Alice nel Paese delle meraviglie, ma alle Meraviglie della Pubblica amministrazione italiana. Il Bianconiglio ci potrebbe, allora, condurre in un tortuoso percorso di sprechi, opere pubbliche piantate a metà, tempi di pagamento ai fornitori fuori da ogni logica negoziale, best practice e idee, come monadi, mai “entrate in circolo”.

Senza parlare di siti web vergognosamente inaccessibili ai disabili, nonostante le leggi, di acquisti telematici solo per il 5% del totale e così via. Paradossi frutto di una fervida fantasia realizzativa. Ma anche di un impianto normativo con una gestione troppo periferica e carente di controlli sulla rispondenza agli indirizzi centrali. Il riferimento è alle autonomie garantite dalla riforma del Titolo V della Costituzione. La sua applicazione, senza un presidio centrale adeguato, ha aumentato i gap tra una regione e l’altra, sfruttando poco, tra l’altro, il contributo della tecnologia allo sviluppo armonico dei territori. È qui a testimoniarlo, per esempio, il comparto sanitario, così disomogeneo a livello regionale. L’Osservatorio Sanità del Politecnico di Milano ha, infatti, dimostrato la correlazione diretta tra livello di spesa informatica pro-capite e qualità della prestazione. E non è un caso che anche gli acquisti telematici in ambito pubblico, scarsi a livello complessivo italiano, abbiano però punte di utilizzo in Lombardia ed Emilia Romagna.

Già a metà dicembre sulle pagine di questo giornale (n°20, pag. 28) riportavamo che i Paesi con una PA funzionante hanno un’arma in più contro la crisi e che le imprese dispongono di qualche altra freccia da scoccare sul fronte della competitività. Questi, ormai, sono fatti che non debbono più essere dimostrati, perché verità ormai condivise. Come pure l’idea che la PA ricopra un ruolo strategico per lo sviluppo di un Paese e la crescita, anche civile, di un intero Popolo. L’Agenda Digitale italiana, derivata dagli ambiziosi e legittimi obiettivi di Horizon ed Europa 2020, è da considerare sia fonte di ispirazione per le azioni di miglioramento, che strumento per allinearci a standard più evoluti, anche grazie all’utilizzo pervasivo della tecnologia e della semplificazione normativa.

La riforma per una PA digitale è un “codice rosso”, perché incide sulle imprese e sui cittadini e può condurre il Paese a coprire un divario non solo tecnologico, ma anche culturale. “Raggiungere gli obiettivi posti dall’Agenda Digitale – dichiara Michele Benedetti dell’Osservatorio eGovernment della School of Management del Politecnico di Milano – ci farà recuperare in efficienza e competitività. Qualche esempio dà un’idea della portata che potrebbero avere interventi più ampi. La sola digitalizzazione dei certificati anagrafici e dei documenti per gli Sportelli Unici delle Attività Produttive (Suap) e un uso più intenso dei pagamenti elettronici per multe, Tarsu, Imu e via dicendo, farebbero risparmiare 2,3 miliardi di euro. Il 40% da costi vivi di materiali e il 60% dalla riduzione del tempo dedicato dal personale a queste attività”.

Esiste, quindi, un divario tra fruibilità e qualità dei servizi offerti dalla PA ai cittadini. Le cause, spesso, sono imputabili a fattori apparentemente intangibili, come “la scarsa lungimiranza di amministratori e dirigenti verso l’innovazione, con uno stato dell’arte falsamente soddisfacente”.

Negli ultimi dieci anni i 750 milioni di euro di finanziamenti governativi, diretti alla PA locale per progetti di innovazione, non sono stati produttivi. I valori generati non hanno “fatto sistema”. Anzi. Quasi la metà dei progetti raggiunge a mala pena il 25% degli obiettivi fissati e, terminati i finanziamenti, il 40% viene abbandonato. Perché? “Oltre il 30% dei Comuni sopra i 15 mila abitanti – prosegue Benedetti – non possiede un settore innovazione. La mancanza di adeguate indicazioni operative, la burocrazia usata per resistere al cambiamento, il limitato commitment politico e la scarsità di risorse competenti, riducono al minimo gli impatti delle iniziative”. Quanti progetti sono diventati standard per altre comunità locali? Solo rari esempi. Spesso sono fonte di spreco, perché chiudono prima ancora di avere il tempo di generare dei benefici. Ma se facciamo così fatica a rimuovere i difetti, vuoi che avesse ragione Molière, affermando che “tutti i vizi, quando sono di moda, passano per virtù?”.

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