LA RIFLESSIONE

Sharing economy e territori, ricetta vincente per la PA che innova

Nel momento in cui la fiducia dei cittadini nei confronti di amministrazioni e istituzioni è ai minimi storici, è importante sperimentare e sostenere nuove forme di collaborazione e nuovi modelli di gestione della cosa pubblica che superino il modello verticistico. L’analisi del direttore di FPA, Gianni Dominici

Pubblicato il 23 Dic 2016

gianni-dominici-150522102706

L’anno appena passato ha ulteriormente messo in evidenza, qualora se ne sentisse ancora il bisogno, le contraddizioni di un paese che, a fronte delle difficoltà endemiche nel portare avanti processi di cambiamento, non riesce a valorizzare e a capitalizzare le spinte che vengono dal basso, dai diversi territori e città dove più forte ed efficace è, invece, la capacità di reagire alle sfide in atto. Contraddizioni ancora più evidenti nel caso della pubblica Amministrazione, la quale risponde alla necessità di sviluppare una capacità di resilienza alle sfide che si trova davanti, con goffi tentativi di migliorare il proprio funzionamento e costare meno. Per altro con risultati minimi.

D’altronde i problemi, in gran parte, sono noti da tempo. La ricerca sul lavoro pubblico, che pubblichiamo ogni anno in concomitanza con la Manifestazione di maggio, conferma i dati strutturali generali. Prima di tutto la variabile anagrafica. La media dell’età degli impiegati sfiora i cinquant’anni, conseguenza di un blocco sostanziale all’entrata di giovani: quelli con meno di 35 anni erano il 10,3% nel 2011 e ora sono l’8%, contro il 25% del Regno Unito e il 27% della Francia. In più, gli impiegati sotto i 25 anni sono praticamente assenti (0,9% e quasi tutti nelle carriere militari). Altro fattore rilevato dall’indagine è la riduzione delle spese per gli stipendi dei dipendenti pubblici, che sono diminuiti, complessivamente, dai 171,6 miliardi di euro del 2009 a 164,26 miliardi nel 2015, mentre sono cresciuti in Francia (da 254,1 a 281,7 miliardi) e in UK (da 186,7 a 238,82 miliardi); la media dei Paesi UE è passata da 115,3 miliardi nel 2009 a 130 miliardi nel 2015. I dipendenti pubblici italiani, ancora nel 2016, costano molto meno che nei due Paesi di confronto per via del blocco dei contratti e della riduzione del personale, ma la tenuta del rapporto tra costo del personale pubblico e PIL, che si è ridotto dal 10,9% nel 2007 al 10,6% nel 2015, non è stato pagato da una profonda riorganizzazione della macchina pubblica, come è invece avvenuto, per esempio, in UK.

Il tema del capitale umano mette al centro quello che, dal nostro punto di vista, rimane l’elemento critico delle dinamiche di cambiamento. Le politiche di innovazione dovrebbero essere incentrate e supportate da processi di coinvolgimento e di condivisione degli obiettivi, definite sui reali bisogni di coloro che ne sono i destinatari, pena il rischio concreto che vengano vissute come aliene e quindi osteggiate proprio da chi dovrebbe esserne il motore. Una distanza che viene spesso sentita nei confronti dei principali processi di cambiamento proposti a livello nazionale. Al contrario, la vitalità di alcuni territori italiani, registrata nel 2016, evidenzia come le istituzioni, quando riescono ad avviare un confronto serio con i diversi attori coinvolti nel cambiamento, riescano anche a portare avanti e a compimento importanti processi innovativi.

Prendiamo, ad esempio, i risultati dell’indagine che abbiamo svolto nei primi giorni di dicembre e che ha sullo sfondo la legge di riforma della pubblica amministrazione. Abbiamo chiesto al nostro panel – composto per il 79% da dipendenti pubblici, per il resto da operatori privati e del terzo settore – di raccontarci in che modo i decreti attuativi della riforma Madia e l’impianto della stessa riforma potranno impattare sul futuro del Paese, della pubblica amministrazione o semplicemente nell’esercizio del proprio essere, cittadini, lavoratori pubblici o imprese (i risultati dell’indagine li trovate nello specifico report). Tra le diverse risposte è interessante mettere in evidenza che il 76% dei rispondenti dichiara che in merito alla riforma “tutto è affidato a leggi e provvedimenti, ma mancano indirizzi programmatici e atti di gestione” e che, accanto a questa indicazione, il 62% del panel risponde che non è d’accordo nell’affermare che la riforma “ha il grande merito di porre al centro il cittadino e l’impresa”. Insomma, nel lungo cammino fatto di decreti di attuazione quello che si rischia di perdere è proprio il rapporto diretto con i cittadini e le imprese a favore di una PA che rischia di ribadire la natura prevalentemente autoreferenziale della sua esistenza e che tradisce una visione della PA tutta tesa alla razionalizzazione, all’efficientamento. Una visione stabilita al centro e trasferita alle strutture decentrate e alle autonomie regionali e locali. Ma la burocrazia, così come l’elefantiasi di alcune amministrazioni o la ridondanza delle competenze, o ancora, il non raggiungimento di standard minimi di servizio, non si sovvertono con le norme perché sono agganciate a problematiche di natura culturale.

Considerazioni analoghe valgono per Spid. Gli obiettivi ambiziosi, forse troppo, forse anche irragionevoli sono stati irrimediabilmente contraddetti dal paese reale: nei primi giorni del dicembre 2016 sono poco meno di 440.000 gli italiani che hanno un’identità SPID (4,4% sul traguardo dei 10 milioni previsti al termine del prossimo anno) mentre le amministrazioni attive sono poco più di 3.700. Siamo sicuri che gli italiani abbiamo tutta questa voglia di SPID? Forse, anche in questo, un maggior ascolto delle priorità del paese avrebbe portato una migliore definizione delle priorità da seguire.

Un altro tema dell’anno che sta finendo è quello del nuovo Codice degli appalti. Come messo in evidenza in una recente ricerca del Politecnico di Milano, il nuovo Codice se non velocemente e adeguatamente recepito, rischia di peggiorare ulteriormente l’operatività della pubblica amministrazione. Già quest’anno, nei sei mesi successivi all’introduzione del nuovo Codice, i bandi di gara si sono ridotti del 28% (30% quelli relativi ai servizi digitali) rispetto all’anno precedente. E’ quindi necessario ed urgente intervenire con chiarezza e decisione per eliminare tutti quei fattori di incertezza che ne stanno minando i principi generali. Una riforma, di nuovo, calata dall’alto che non tiene conto delle dinamiche di una economia ferita e che rischia di tradire il paese reale, producendo delle situazioni di stallo che, se non risolte prontamente, rischiano di essere letali.

A fronte di queste difficoltà, si diceva all’inizio, dovute a una cultura di governo ancora prevalentemente burocratica e verticale che considera il cittadino come un semplice destinatario di servizi – cliente, paziente, utente a seconda dei casi -, dai territori si rafforza una nuova cultura di governo.

In tema di città, ad esempio, Icity Rate, la ricerca che abbiamo presentato a Bologna, ci restituisce un paese a livello locale pieno di contraddizioni ma anche di iniziative e di proposte. Abbiamo Milano, grande città di caratura internazionale che fa da apripista a Torino, Bologna, Venezia, Firenze non più isolate fra di loro ma collegate grazie al tessuto di connessione costituito dalle città medie di Padova, Parma, Trento, Modena e Ravenna. Una vera piattaforma territoriale abilitante di iniziative economiche, sociali e culturali come lo Smart City Lab milanese, l’incubatore del Comune di Firenze, il progetto Smart Living di Brescia, il progetto SMILE della città di Torino. Ma il buon governo delle città non è solo del Nord, pur nell’ancora distante Sud ci sono forti elementi di reazione. Città che stanno investendo su se stesse inaugurando inediti percorsi basati sulla sostenibilità e sull’innovazione sociale. Sono città come Cagliari, Matera, Lecce e Siracusa con iniziative e progetti come “Lecce social innovation city”.

Anche i cambiamenti legati ad un importante processo di natura mondiale come la Sharing Economy seguono un percorso alternato. Mentre al livello nazionale la proposta di legge di iniziativa parlamentare prosegue il suo iter tortuoso, a livello locale fioccano le iniziative che diventano laboratorio importante per nuovi modi di intendere il rapporto tra pubblico e privato. Ed è così che fanno scuola esperienze come quella delle Tagesmutter, nata in Trentino per prendersi cura in modalità collaborativa, dei bambini all’interno dell’area domestica. Oppure di Common Net, nata per condividere l’accesso ad internet e combattere il digital divide anche nelle aree più remote. Di Officine Zero, che in uno spazio abbandonato ha creato uno spazio di co-working dedicato agli artigiani.

Il ruolo che queste esperienze prefigurano per la PA non è solo quello di regolatore (vedi Uber) o facilitatore dei processi in atto. Diverse sono le opportunità che la nuova cultura della condivisione offre alla PA. Ad un primo livello la possibilità per la pubblica amministrazione di accedere ai servizi sharing, quali ad esempio Airbnb o Blablacar, così da ridurre i costi di trasferta. Ad un secondo livello si propone di dare alla PA la possibilità di creare dei portali di condivisione alla stregua di quelli privati così da poter condividere beni, servizi, e risorse umane; all’ultimo livello, infine, si colloca la domanda su “se e come” permettere alla PA di condividere i propri beni e servizi anche con i privati, in altri termini la possibilità per un ente pubblico di entrare nel mercato abilitato dalle piattaforme: ad esempio poter organizzare un car pooling in cui il Comune metta a disposizione le proprie macchine, anche a privati, su una piattaforma gestita da privati.

E ancora, l’innovazione passa per una nuova cultura della gestione del territorio che fa propri quei principi di partecipazione e di collaborazione che abbiamo, ad esempio, trovato nella provincia di Trento con la ricerca sulla piattaforma ComunWeb. Qui le parole chiave della cosiddetta riforma Delrio sono diventate realtà, grazie al Consorzio dei Comuni Trentini, in una gestione associata dei servizi web condivisi da quasi duecento enti locali. Al progetto, la cui prima versione di piattaforma è stata rilasciata nell’ottobre 2012, hanno aderito oltre 200 enti, cioè la totalità dei Comuni della Provincia Autonoma di Trento e le Comunità di Valle del Trentino, più altri Comuni ricadenti fuori il territorio provinciale.

Con 2.500 amministratori coinvolti e 1.100 dipendenti attivi, Comunweb conta su una serie di asset che lo rendono un progetto di spicco nel panorama nazionale: paradigma open source, riuso a costo zero, una community di aziende innovative che lavora al suo sviluppo, redazione diffusa a cui viene dedicata specifica formazione, forte sinergia con il portale dei dati aperti della Provincia autonoma di Trento, da cui deriva un’offerta di data-set che sfiora i 5000 in totale. Il modello economico di Comunweb è sorretto da un’idea semplice e forte allo stesso tempo, che si potrebbe sintetizzare in questo slogan: l’unione fa il risparmio. Il risparmio stimato, nell’arco di tre anni (2013-2015), nel caso di utilizzo delle soluzioni Comunweb è infatti pari a circa 1,4 milioni di euro. Ma non è solo risparmio economico, governare il territorio in logica collaborativa significa infatti anche far crescere competenze e comunità locali.

Forse proprio da queste esperienze dobbiamo ripartire, lasciando per un po’ da parte la politica nazionale e romana e investendo su questi baluardi del cambiamento, avamposti, spesso trascurati, di un nuovo rapporto cittadini-istituzioni.

Per far questo, proprio nel momento in cui la fiducia dei cittadini nei confronti di amministrazioni e istituzioni è ai suoi minimi storici, è importante sperimentare e sostenere nuove forme di collaborazione, nuovi modelli di amministrazione che vedano protagonisti i territori e che noi proponiamo si fondino sulle “quattro E”, modello che stiamo applicando nei diversi percorsi di innovazione e che sono diventate strumento operativo per sostenere il cambiamento: Endorsement, nel senso di costruire e rafforzare la volontà politica, sollecitando la classe politica e amministrativa di vertice a svolgere un ruolo attivo nel supporto dei processi di innovazione, a fare propri approcci nuovi nel rapporto tra governanti e cittadini e a sostenere i fenomeni emergenti collegandoli alla propria agenda politica. Engagement, per promuovere la cultura della partecipazione e il coinvolgimento reale dei cittadini e degli attori (interessati e destinatari) nei processi di innovazione. Aprire al dibattito pubblico, alla consultazione collettiva, alla condivisione di strategie e azioni per rispondere in maniera efficace ai bisogni e alle esigenze del territorio. Empowerment, per fornire agli operatori della PA momenti di formazione interna e occasioni di presa di coscienza della propria mission specifica. Sviluppare competenze e strumenti per fare innovazione. Creare le condizioni (capacity building) affinché si diffondano all’interno delle Amministrazioni la cultura dell’innovazione e le pratiche collegate. Enforcement, così da adottare misure specifiche e puntuali per dare effettiva attuazione agli approcci innovativi. Meno norme, più manuali, più reti, più confronto e valutazione reale.

Uno strumento operativo a supporto del necessario cambio di paradigma per passare dall’idea di uno Stato provvidente che autorizza (lo Stato regolatore), produce (lo Stato produttore), assiste (il Welfare State) ad uno Stato partner che si muove in un concetto di rete, che detiene la funzione di stimolo dell’intelligenza collettiva, che sostiene e, dove necessario, guida e abilita la società verso la transizione ad un modello collaborativo.

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

Articoli correlati