NUOVA ECONOMIA

Start up, l’Italia sarà eterna preda?

I capitali di rischio sono scarsi, inevitabile la “fuga” oltreconfine. Vendere è un legittimo obiettivo individuale ma non può essere quello di un sistema che investe

Pubblicato il 14 Ott 2013

Giovanni Iozzia

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Mancano le prede o i cacciatori? E se il cacciatore è uno straniero è un bene o un male? Nella foresta italiana delle start up, che non è certa la “Rain Forest” disegnata dal venture capitalist Greg HSorowitz in libro di culto, scorre un fiume di legittima voglia di successo economico mescolata con un ammirevole orgoglio nazionale e un sentimento simile all’impotenza della volpe davanti all’uva.

Le exit sono rare e la recente vendita di Silicon BioSystem al gruppo Menarini appare la classica eccezione che conferma la regola. Ancora più rare quelle con società straniere e per questo quasi mitizzate. O, viceversa, colpevolizzate perché portano all’estero talenti, competenze e know how. Jobrapido di Vito Lo Mele acquistata dal gruppo inglese DailyMail, Eccecustomer conquistata con Decisyon da un fondo americano, Viamente comprata da una società di software sempre americana. Founder invidiati, storie portate a esempio di un modello che non appare del tutto convincente.

Se Mr Agenda Digitale Francesco Caio, intervenendo al TechCrunch Italy 2013, ha sentito la necessità di lanciare un appello alle start up italiane, “Non fuggite”, evidentemente il tema c’è. E il rischio anche. Ma non perché qualcuna ogni tanto finisce nel mirino di un investitore internazionale, confermando che qui non mancano le idee e la capacità di farne business, quanto perché nel bosco nazionale dell’innovazione, poco o nulla toccata dalle pioggie fluviali dei finanziamenti, crescono ancora pochi arbusti, troppo deboli e pochi sono destinati a diventare begli alberi di tek e mogano che, comunque, non cresco in pochi anni.

Ci vuole tempo. Tra le start up d’inizio secolo ci sono stati esiti interessanti, come Buongiorno comprata dai giapponesi di Ntt Docomo o Venere.com finita nel carniere di Expedia. E ancora una volta vengono in mente soluzioni straniere. Ma ci sono state anche le exit in Borsa di Yoox e Mutuionline. Se non è quindi completamente vero che le start up non hanno futuro (visto che hanno già un passato), è indiscutibile che si muovono in un ambiente ancora asfittico. Manca il nutrimento, ma anche la cultura e l’attenzione del sistema economico tradizionale. In questo contesto le wayout veloci, i pochi anni del mercato americano, sono impensabili.

I capitali di rischio sono scarsi e le classifiche europee periodicamente ci ricordano che siamo agli ultimi posti, dopo Paesi come Portogallo e Grecia. Inevitabile quindi che chi ha talento, capacità e tenacia prima o poi salga su un aereo e vada a New York o nella Silicon Valley. Perché anche se ha trovato i soldi per cominciare, per verificare che l’idea può essere un’impresa, non trova quelli necessari per crescere su scala internazionale ed essere competitivi. “Le acquisizioni di start up sono un fenomeno embrionale in tutta Europa. C’è un gap rispetto agli Usa. E in Italia è ancora più ampio”, osserva Fausto Boni, venture capitalist, general partner del fondo 360Capital. Non ci sono in Europa compagnie del livello di Google, Yahoo o Facebook e manca quindi un’attenzione costante ai territori nazionali. “I grandi operatori, quelli che comprano, sono tutti americani e guardano prima in casa loro, poi al mercato asiatico e alla fine a quello europeo”, aggiunge Boni, che spesso invita le start up a lavorare sin dall’inizio per essere comprate da Google. Uno stimolo a pensare globale certo, che però ripropone la questione della perdita di competenze. Una preoccupazione più volte espressa, per esempio da Alfonso Fuggetta, ceo al Cefriel del Politecnico di Milano, che nel suo blog ha scritto: “Se le poche startup di successo alla fine vengono comprate da società straniere, certamente arricchiamo i giovani ‘startupper’, ma non facciamo nulla di utile per il nostro paese”.

Il nervo è scoperto. E basta che Facebook acquisti una start up basata a Londra che però ha due dei tre founder italiani per scatenare la periodica filippica sui tesori nazionali (dal fashion al food) finite in mano straniera. Vendere a Google&Co. è un legittimo obiettivo individuale, ma non può essere quello di un sistema che investe in formazione e in sostegno alla nuova imprenditoria. Per dirla con Enrico Gasperini “come venture capitalist io devo essere agnostico. Vendere a un italiano o uno straniero o andare in Borsa per me non fa differenza. Ma come cittadino mi pongo la questione della crescita del Paese”.

Vendere o non vendere alla multinazionale americana, in conclusione, è un falso problema. Se si allevano prede forti, trovare il cacciatore è semplice. Che ce ne siano con il tricolore sul carniere è altra questione.

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