Avenia, l’uomo che va oltre

Il top manager di Ericsson Italia, appena nominato responsabile della Brand Strategy a livello mondiale, affronta i temi caldi dell’innovazione in Italia: “Di questo passo rischiamo il sorpasso da parte dei Paesi  emergenti”

Pubblicato il 06 Nov 2009

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«Internet e le tecnologie della comunicazione hanno cambiato per
sempre il nostro modo di vivere, di lavorare e di socializzare.
Tali cambiamenti saranno sempre più efficaci quando più si
radicheranno all’interno dei processi di una società. Sta
nascendo un mondo nuovo. Non capirlo e non agire di conseguenza
significa rischiare di rimanere ai margini dello sviluppo. Non solo
economico ma anche culturale, civile. Si resta fuori dal cuore
della modernità». Cesare Avenia, di mestiere fa
l’amministratore delegato di Ericsson in Italia con
responsabilità dell’intera market unit South East Europe, ma la
sua passione sono le tecnologie. Si avvicina ai sessant’anni, ma
non esita a definirsi un “digital native”. Difficile smentirlo,
a giudicare dalla naturalezza con cui twitta sul suo iPhone. O dal
fervore con cui perora la causa dell’innovazione. Un
evangelizzatore si direbbe. O un visionario. Magari quel che
predica conviene anche all’azienda che dirige, ma è dal
convincimento che nasce l’accaloramento con cui ha accompagnato
la sua ultima “provocazione”: fare delle città italiane i
capisaldi delle nuove tecnologie, in grado di sostituire il
traffico degli atomi con l’alta velocità dei bit, di mandare a
casa la vecchia macchina burocratica per sostituirla con la
leggerezza dei servizi elettronici. I manager si vedranno in
telepresenza al posto di litigare col traffico, malati e anziani
saranno in contatto a distanza con medici e ospedali, i pagamenti
li faremo con card elettroniche e telefonini lasciando a casa il
portafoglio, gli uffici saranno deserti visto che gran parte delle
pratiche burocratiche le faremo da casa col pc.
Non le sembra di essere un po’ troppo
visionario?

No, questa è già realtà. La vita cui ci introducono le nuove
tecnologie della comunicazione. Ericsson ha collaborato con alcune
città in vari posti del mondo per sperimentare a livello locale
molte di queste applicazioni: da Heraclion o Tricala in Grecia a
Johannesburg in Sud Africa, da Stoccolma in Svezia a Kaek in Arabia
Saudita. Sono case history che hanno dato risultati incredibili.
Resi possibili da un’adeguata infrastruttura in larga banda e
dalla volontà delle amministrazioni locali di fornire in maniera
nuova i servizi tradizionali. Che si sono trasformati in servizi
innovativi.
Banda larga significa grandi spese. Ma i soldi sono
pochini.

La banda larga non è una spesa, ma un investimento nel futuro. Non
credo, comunque, che il problema prioritario sia quello di trovare
le risorse. Queste, se lo si vuole veramente, si possono sempre
trovare. Nelle pieghe dei bilanci pubblici o nel mercato.
E quale è il problema principale, allora?
Pensare al futuro richiede una vision: significa progettare cosa
saranno domani i nostri figli. E di questo c’è carenza nel
dibattito in Italia. È il Paese nel suo complesso che deve porsi
il problema di offrire ai cittadini tutta una serie nuova di
servizi che trasformeranno in meglio la loro vita: dall’e-health
all’e-gov, dall’e-commerce alla e-mobility. È quella che è
stata chiamata la reingegnerizzazione delle città, la loro
digitalizzazione, se vuole. Dobbiamo essere capaci di investire con
una visione di lungo termine. È l’unico modo per poter dare i
servizi in modo nuovo, realizzare una crescita economicamente
sostenibile, rendere i cittadini protagonisti del loro futuro
grazie alla e-democracy.
Non si sente di predicare nel deserto?
No, perché mi sembra che la consapevolezza della direzione di
marcia si stia facendo strada un po’ ovunque: dagli Stati Uniti
all’Europa all’Estremo Oriente.
In Italia non si trovano nemmeno le risorse contro il
digital divide.

È vero, ma mi pare che ci stia rendendo conto che certi ritardi
non sono più sostenibili. Lo ha detto lo stesso sottosegretario
alla presidenza del Consiglio Gianni Letta intervenendo al convegno
che abbiamo organizzato a Roma sulle città digitali. Ma il tema va
oltre il digital divide. L’infrastruttura in banda ultralarga è
fondamentale, come non si stanca di ricordare il presidente di
Agcom Corrado Calabrò: è proprio questa visione dell’Italia
come fiber nation, che condivido, che chiama ad un impegno di lungo
termine.
Ma come dare la scossa?
Partendo da un progetto la cui realizzazione richiede di fare
sistema attraverso il contributo e l’integrazione di tutti gli
attori coinvolti: cittadini, imprese, istituzioni ed enti
regolatori. In testa a tutto ci vuole la regia di un unico
referente, il Governo, che definisca le regole, identifichi le
priorità e predisponga un piano di sviluppo condiviso. Ci vogliono
direzione e coordinamento. Imprese e pubblica amministrazione
dovranno integrare le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie
all’interno della propria organizzazione e dei propri processi
per concretizzare efficacemente il rinnovamento. Il progetto deve
coinvolgere il presente e il futuro in una continuità di impegno,
a prescindere da quale forza governi in un dato momento. Ubiquitous
Japan traguarda il 2020. È di questo che abbiamo bisogno: di
immaginare ora il ruolo che l’Ict svolgerà in Italia fra dieci
anni.
Partendo da dove? Dall’uovo dell’infrastruttura o dalla
gallina dei servizi?

Muovendosi contemporaneamente su entrambi i fronti. Ma è evidente
che senza infrastruttura non nasceranno nemmeno i servizi perché
non avranno gambe su cui camminare. È da lì che bisogna partire.
Ma non dobbiamo aspettare le nuove reti. Molti servizi possono già
marciare sulla rete attuale. La sburocratizzazione non ha bisogno
delle Ngn. Può partire subito.
Sareste disponibili ad investire nella società della
rete?

Certamente. Se si tratta di finanziare opere di cui noi saremo i
realizzatori, non ci tireremo indietro.
C’è veramente tutta questa urgenza delle
Ngn?

Siamo già in ritardo. I rischi sono enormi. Nelle
telecomunicazioni l’Italia è sempre stata all’avanguardia: se
staremo ancora fermi rischiamo il sorpasso. Ma sa di chi? Persino
dei Paesi emergenti. Non avendo una legacy, possono partire subito
con infrastrutture e servizi a larga banda: dopo gli svantaggi
competitivi del costo del lavoro, rischiamo di subire anche quelli
dell’innovazione tecnologica. Vogliamo diventare satelliti dei
Paesi emergenti?
Sta preparando l’uscita di Ericsson
dall’Italia?

Non abbiamo nessuna intenzione di uscire dall’Italia. Tant’è
vero che abbiamo anche acquisito la Marconi. Né cerchiamo
protezioni perché la globalizzazione non si può combattere. Anzi
è un bene. Ma la competizione deve essere uno stimolo a evolvere e
a continuare ad investire. Come noi stiamo facendo. Certo se un
Paese non ha visioni prospettiche e non investe sul proprio futuro,
le aziende che vi operano non possono non subirne le conseguenze.
Ma mi auguro che ciò non avvenga in Italia.

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