IL CASO

Luxleaks, anche Skype tra le aziende che hanno dribblato il fisco

Si arricchisce l’elenco delle società che avrebbero negoziato accordi fiscali favorevoli con il Lussemburgo. La web company acquisita da Microsoft nel 2011 avrebbe usato un complicato sistema di sussidiarie. Nella lista anche Telecom Italia

Pubblicato il 10 Dic 2014

Patrizia Licata

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Anche Skype ha usato le sue sussidiarie in Lussemburgo e Irlanda per evitare di pagare le tasse per cinque anni: lo rivela un’inchiesta del quotidiano britannico The Guardian. Nel giorno in cui la Commissione europea vara il primo giro di vite sul fisco e annuncia nuove misure per evitare l’elusione, la maxi-inchiesta “Luxleaks” si arricchisce di un nuovo capitolo con molti nuovi nomi, dopo gli scandali legati a big del calibro di Amazon e Ikea.

Il Guardian, che ha analizzato documenti confidenziali ottenuti dall’International Consortium of Investigative Journalists, ha scritto che Skype, la società per le chiamate su Ip acquistata da Microsoft nel 2011 per 8,5 miliardi di dollari, è tra le tante aziende che hanno usato il regime fiscale estremamente favorevole del Lussemburgo per ridurre al minimo il pagamento delle tasse corporate.

Skype avrebbe utilizzato due compagnie lussemburghesi e una controllata irlandese per mettere in piedi uno schema che ha permesso a Skype Technologies, divisione con sede in Lussemburgo, di pagare le tasse al minimo per un periodo di cinque anni. Nello specifico, le revenues di SkypeOut finivano nella lussemburghese Skype Communications; questa pagava delle royalties sulla proprietà intellettuale a un’altra azienda lussemburghese, Skype Technologies, che a sua volta possiede l’irlandese Skype Limited. Siccome Skype Technologies possiede il 100% di Skype Limited, per il fisco del Lussemburgo tutto il sistema equivaleva a un pagamento di licenze e successiva restituzione di dividendi da Skype Limited a Skype Technologies, che otteneva così un abbattimento del 95% sul carico fiscale sui guadagni dalle licenze di Skype Communications.

Il sistema, in atto dal 2005, copre il periodo in cui Skype era di proprietà di eBay e non è chiaro se gli accordi col Lussemburgo siano ancora in essere. Oggi proprietaria di Skype è Microsoft, che ha dichiarato: “Dopo l’acquisizione abbiamo rivisto e modificato il modello di business di Skype. Come azienda globale, Microsoft rispetta attentamente le regole di ogni Paese in cui opera”.

Da un punto di vista strettamente legale, nota il Guardian, nessuna legge è stata infranta da Skype; sotto accusa sono però gli accordi di favore che aziende come Skype hanno ottenuto da parte di piccole nazioni europee, come il Lussemburgo, che permettono alle aziende in questione di abbattere il carico fiscale e alle piccole nazioni di garantirsi la presenza sul loro territorio di grandi multinazionali che comunque versano dei soldi nelle loro casse, a scapito però di tutte le altre nazioni europee dove il grosso del fatturato e degli utili di queste multinazionali viene generato.

E’ proprio questo sistema che la Commmissione europea è decisa a smantellare rendendo gli accordi sul fisco illegali equiparandoli ad aiuti di Stato. La situazione è particolarmente imbarazzante per Jean-Claude Juncker, ora presidente della Commissione ma ex capo del governo in Lussemburgo. Juncker avrebbe detto, secondo il Guardian, che “il modello Lussemburgo” non esiste ma anche che “Skype resterà qui…e questo è in parte dovuto al favorevole ambiente fiscale che abbiamo creato in Lussemburgo”.

Nelle migliaia di pagine passate al setaccio dal Guardian compaiono 35 nuovi colossi coinvolti nel cosiddetto “Luxleaks“, tra cui Reckitt Benckiser – gigante dei prodotti per la pulizia quotato a Wall Street – Bombardier, uno dei quattro maggiori produttori aeronautici del mondo, e Koch Industries. Tra i gruppi che fanno affari nel nostro Paese ci sono Telecom Italia – per un’operazione del 2007 che riguardava una sua controllata del Granducato e i flussi di liquidità verso una Sicav belga – e Disney. Lo scandalo riguarderebbe accordi fiscali stipulati nel periodo 2003-2011 tra alcune società multinazionali e il governo lussemburghese che allora era nelle mani dell’ex premier, e attuale presidente della Commissione, Juncker. In questo sistema di accordi, denominato “tax ruling”, alcune società riuscivano a concordare il trattamento della propria situazione fiscale in modo da ridurre al minimo le imposte.

Le nuove aziende tirate in causa si uniscono all’elenco già uscito il mese scorso, in cui comparivano Finmeccanica, Banca delle Marche, Banca Sella, IntesaSanPaolo, Unicredit, Ubibanca e ancora Apple, Amazon, Ikea, Pepsi, Heinz, Verizon e Aig.

La Commissione europea sarebbe decisa a costringere tutte le aziende a rendere pubblici gli accordi fiscali che stringono con gli Stati: i fatti emersi dall’inchiesta giornalistica Luxleaks dimostrano “l’assenza di coordinamento e armonizzazione fiscale nella Ue e all’inizio del 2015 avanzeremo la proposta per uno scambio obbligatorio delle informazioni sugli accordi tra le amministrazioni e le imprese”, ha dichiarato la Commissione. Che tuttavia ha tenuto a precisare: “Juncker è impegnato al 100% contro l’evasione e le frodi fiscali”.

Il Parlamento europeo da parte sua ha chiesto alla Commissione che venga redatta una rendicontazione per singoli Stati in modo tale da capire da dove vengono i profitti delle imprese e dove vengono pagate le tasse. Inoltre l’Europarlamento ha insistito affinché sia istituito un registro pubblico centrale per le persone giuridiche.

“La nostra fiducia alla Commissione Juncker è strettamente legata all’impegno assunto da lui” in aula su questi temi. “Non si può avere una situazione sociale drammatica e poi avere il prosciutto sugli occhi rispetto a una situazione in cui miliardi e miliardi vengono sottratti alle casse pubbliche”, ha affermato Gianni Pittella, presidente del gruppo S&D del Parlamento europeo durante una conferenza stampa. “La Commissione ha il dovere e il diritto” di avanzare delle proposte, poi “la soluzione è nelle mani dei Governi”, ha precisato Pittella. Servono norme che “dicano ai cittadini che queste cose non succederanno più”. E ancora: “Nei prossimi 3-6 mesi ci aspettiamo che vengano presentate le proposte” da parte della Commissione europea.

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