IL CASO

Canone frequenze, Governo bocciato: si riparte dalla delibera Agcom

La commissione Bilancio di Palazzo Madama dichiara inammissibile l’emendamento dell’esecutivo alla legge di Stabilità. Torna in ballo il regolamento dell’authority, che però presenta problemi di sostenibilità finanziaria

Pubblicato il 18 Dic 2014

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L’emendamento del Governo sul canone Frequenze è stato dichiarato inammissibile dalla commissione Bilancio del Senato, e quindi ritirato. Alla base della decisione ci sarebbe, spiegano dal Mise, il fatto che la proposta dell’esecutivo “non consentirebbe l’applicazione alla lettera del regolamento Agcom” varato dall’Authority alla fine di settembre. La prospettiva è, a questo punto, spiegano dal ministero, che già sul 2014 si applichino le norme Agcom che ridisegnano i criteri di pagamento per l’uso delle frequenze radiotelevisive, spostando il baricentro dal fatturato delle emittenti (che fino a oggi pagavano l’1% del fatturato) al valore delle frequenze utilizzate, e quindi dalle imprese editoriali a quelle tecnologiche (gli operatori di rete) che detengono i diritti d’uso delle frequenze.

Permangono però, a questo punto, le perplessità manifestate dal Governo sulla sostenibilità finanziaria della delibera dell’authority, come messo nero su bianco nella relazione tecnica che accompagnava l’emendamento bocciato ieri sera: “L’applicazione progressiva del nuovo sistema di contribuzione determinerebbe per i primi otto anni e sino alla sua applicazione a regime una riduzione significativa di gettito per l’erario rispetto al 2013”, si leggeva nella nota. E proprio questo sarà il nodo da sciogliere prima della fine dell’anno, dal momento che la legge di riferimento, il decreto legge del 2 marzo 2012 n° 16, convertito dalla legge 26 aprile 2012 n°44, da una parte prevede che dall’attuazione delle nuove norme “non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, ma dispone anche che il nuovo sistema di contributi venga applicato “progressivamente”. Proprio quello della progressività potrebbe essere il campo in cui si giocherà la partita nei prossimi giorni.

Ma l’emendamento di ieri, al di là della dichiarazione di inammissibilità della commissione, poneva due nodi principali: il primo sul “chi” sarebbe stato chiamato a pagare per la concessione delle frequenze, e il secondo sul “se” sia possibile per i ministeri competenti, Mise e Mef, scavalcare con una norma di legge quanto stabilito da Agcom nel regolamento approvato dal Consiglio dell’Authority il 30 settembre. Caso sul quale aveva lavorato nelle ultime settimane l’ufficio legale del Mef perché il testo finale della proposta del Governo non fosse impugnabile.

“Gli operatori di rete – recitava l’emendamento che comunque fino all’ultimo dal Mise definivano “non definitivo” – sono tenuti al pagamento di un contributo annuale, determinato in via transitoria dal ministero dello Sviluppo economico di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanze, secondo i parametri del regime di contribuzione di cui all’art.27, comma 9, della legge del 23 dicembre 1999 n°488”. Il testo dunque prevedeva un ulteriore cambio di rotta nei criteri di pagamento di canoni allo Stato da parte delle Tv: non più l’1% del fatturato (il regime imposto dalla 488) delle “aziende radiotv” com’è stato fino ad oggi, ma l’1% del fatturato degli operatori di rete. La base imponibile avrebbe così rischiato di essere comunque molto ridotta.

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