Lo spettro del Shelfware che spaventa la nuvola

Gli utenti aziendali dei servizi cloud spesso non li utilizzano. E questo si traduce in costi per le aziende erogatrici dei servizi

Pubblicato il 06 Mar 2015

Antonio Dini

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Uno spettro si aggira tra le nuvole. Si chiama Shelfware, una parola intraducibile in italiano che gioca con l’idea di hardware e software. Ed è un problema.

L’idea stessa di Shelfware è quella di risorse informatiche per cui si è pagato ma che non vengono utilizzate, in pratica la roba presa ma che rimane sullo scaffale inutilizzata. Microsoft in particolare si sta trovando davanti a questo problema per quanto riguarda il suo cloud, Azure. Da tempo infatti l’azienda sta spingendo molto per guadagnare quote di mercato e offre in promozione, in modalità scontata o comunque a basso costo alle imprese di accedere di accedere ad Azure. Il risultato è che molte di queste aziende prendono Azure, ma non utilizzano la capacità di calcolo che viene allocata per essere potenzialmente erogata. Milioni di macchine virtuali che giacciono sostanzialmente immote.

Il problema è ben noto nel settore ma finora non era diventato così endemico. È un effetto collaterale della guerra del cloud, la battaglia che si sta combattendo tra le nuvole per arrivare alla supremazia di questo modello di business. Tanto che negli Stati Uniti è partita una nuova disposizione per la forza vendita dei servizi cloud di Microsoft: “drive utilization, not just revenue”, fate usare il cloud, non vendeteglielo semplicemente.

Non si tratta, attenzione, di un problema di mancate revenue. Perché in realtà oltre alle promozioni ci sono comunque possibilità di revenue già incorporate all’interno delle offerte promozionali e c’è comunque un tasso fisiologico di rinnovo tacito delle promozioni che fa aumentare i fatturati. Il vero problema sono i contratti di qualità del servizio e le garanzie che devono essere offerte dal fornitore di cloud. A differenza dei contratti con i privati ad esempio nel settore del trasporto aereo, che prevedono l’overbooking e delle modalità compensative ulteriori e alternative, nel cloud non si può vendere a più aziende la stessa risorsa di calcolo e poi sperare che qualcuno non la utilizzi, accomodando così più clienti. Bisogna che effettivamente la risorsa sia disponibile per tutti e per ciascuno, anche se non viene utilizzata. A rischio di creare datacenter pieni di server perfettamente funzionanti ma non utilizzati. In sintesi è questo il problema che Microsoft, ma anche altri come Amazon e Google, si trovano ad affrontare con lo Shelfware.

Esistono strumenti come quelli di Cloudyn, Cloudability e Krystallize Technologies per ridurre lo spreco di risorse e ottimizzare i servizi, oppure strategie più aggressive di marketing e di pre e post-sales. E comunque buona parte dei servizi viene utilizzata (Microsoft stessa spiega che i suoi clienti utilizzano buona parte delle risorse). Il problema dello spreco sta nei margini: se il server di una azienda sta fermo per il 20% del tempo ma si paga il 100% del suo prezzo al momento dell’acquisto, e quindi conviene venderlo e spostarsi sul cloud per pagare “as-you-go”. Il problema dell’utilizzo parziale delle risorse però si sposta semplicemente in una nuova arena e su chi è titolare delle spese di capitale necessarie a creare i datacenter la cui capacità poi non vede completamente utilizzata. Nei prossimi mesi lo Shelfware potrebbe diventare un problema più serio.

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