Lorenzi (Alcatel-Lucent): “Investire in nuove infrastrutture”

L’Ad: “L’Italia ha i mezzi per vincere la sfida globale”

Pubblicato il 08 Feb 2010

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«Sento in giro troppo pessimismo. Certo, se guardiamo alle
preoccupazioni giornaliere nostre, dei competitor, dei nostri
clienti non c’è da stare allegri. Ma ci vuole un po’ di
ottimismo per guardare oltre». Stefano Lorenzi, da un anno
e mezzo amministratore delegato di Alcatel-Lucent,

sorprende. Il suo è un pensiero che va controcorrente. È a capo
di un’azienda che, come tutte le altre (europee e americane) del
manifatturiero delle telecomunicazioni, faticano a reggere: mercati
tradizionali che si restringono, prezzi dei prodotti in calo,
competizione sempre più dura con le nuove tigri che arrivano
aggressive dalla Cina. Le cronache dei giornali sono piene di
notizie di consolidamenti, di ridimensionamenti produttivi e
occupazionali, di chiusure. E il futuro resta incerto.
Non è un ottimismo di maniera il suo?
No, anche se, ovviamente, non mi nascondo i problemi. Nel 2009 il
mercato contendibile del settore a livello globale è sceso in una
forchetta fra l’8% e il 12%, con qualche punta peggiore in
Europa. Qualcosa di simile c’è stato anche in Italia. Il momento
è pesante, ma erano le nostre stime sul mercato. Non si sono
aggiunte sorprese negative.
E il 2010?
In Italia molto dipenderà dalle scelte di investimento
dell’incumbent, in particolare nel mercato fisso. Nel mobile vedo
una spinta significativa dei competitor di Telecom Italia a
migliorare le loro coperture 3G. Vi sono accenni di interessi
sull’Lte: avremo presto i primi trial anche in Italia. L’Lte si
rivelerà una tecnologia importante a partire dalle fine del 2011.
Da parte nostra, continueremo a lavorare nei mercati in cui siamo
market leader, a partire da accesso ottico, Iptv, rete
intelligente.
Il focus si sposta dal manifatturiero puro ai
servizi
.
È una tendenza che riguarda tutti nel settore. Alcatel-Lucent sta
cercando di espandersi nelle applicazioni. Stiamo ampliando le
competenze dell’Italia nell’Ims dove abbiamo preso un contratto
importante. Indipendentemente da dove vengono sviluppati i moduli
software, è importante anche avere unità in grado di
customizzarli per gli operatori. Vendere ferro o mero software
attaccato al ferro è un business che assicura volumi, ma che offre
margini sempre più risicati. Ecco perché tutti stiamo provando a
offrire soluzioni più complesse, a dare maggiore valore al cliente
proponendogli vestiti su misura. Aumentare la intimacy col cliente
è diventato un elemento fondamentale nella strategia delle aziende
come la nostra. Ma questo vale anche per gli operatori. Non a caso
cominciano a ragionare in termini di manutenzioni multivendor e
modelli di outsourcing che prevedono anche spostamento di
personale. L’interesse per il mondo dei servizi è crescente e
generale.
L’altro trend è uscire dalla “morsa” delle
telco.

Tlc non vuole dire solo telco. C’è tutto un mercato oltre le
telco, quello che noi chiamiamo dei “verticali”: si tratta di
dare ai clienti che operano in settori come trasporti, energia,
pubblica amministrazione, sanità, finanza, soluzioni che
contengono sottosistemi prodotti da altri ma che noi siamo in grado
di integrare così da fornire soluzioni chiavi in mano. Credo sia
un mercato potenzialmente importante: tant’è vero che abbiamo
creato una divisione ad hoc che nel 2009 ha segnato una crescita
significativa, anche in Italia.
La competizione asiatica è pressante ed efficace. Si
rischia la deindustrializzazione già vista con il
tessile?

La competizione asiatica ha sottratto alle aziende europee e
americane fette di mercato e ci fa soffrire, anche in Italia. Ma ci
ha anche insegnato ad essere più efficienti, più veloci, più
innovativi, più competitivi in definitiva. Le funzioni di
manufacturing e R&D hanno assunto una dimensione globale
indipendente dalla geografia. C’è una competizione fra aziende,
ma c’è anche una competizione fra Paesi all’interno delle
singole multinazionali. I processi di delocalizzazione esistono, ma
non sono scontati. Ad esempio, l’Italia ha mantenuto posizioni
importanti nella ricerca Alcatel-Lucent. Nella fotonica non abbiamo
ridimensionato l’occupazione nei laboratori di Vimercate e anzi
stiamo cercando opportunità per lanciare nuove iniziative, anche
in collaborazione con università e aziende locali. Anche rispetto
ai nostri colleghi cinesi, hanno fatto premio il nostro dna di
innovazione, la storia, l’esperienza: non sono cose facilmente
traslabili in Cina o altrove. Grazie anche a livelli di costo
inferiori al resto d’Europa, gli head quarter mondiali della
fotonica Alcatel-Lucent sono rimasti in Italia… E questo perché
i suoi processi produttivi specializzati non sono indicati per la
delocalizzazione: la prossimità con la R&S resta importante.
Altri settori vengono delocalizzati.
Ma sarebbe sbagliato vederli come meri fenomeni di off-shoring. In
realtà, stiamo assistendo allo spostamento di iniziative
produttive in Paesi ad alta crescita come quelli asiatici. È nella
logica delle multinazionali di cui parlavamo prima: avere presenze
forti nei mercati che crescono di più. Noi abbiamo creato una
joint venture in Cina ancora prima della creazione di gruppi come
Huawei e Zte. Adesso cerchiamo di potenziarla perché vogliamo
conquistare una fetta significativa del mercato cinese.
L’aggressività dei competitor cinesi ha insegnato ai
manifatturieri europei la spinta per diventare più competitivi e
per andare a giocare anche a casa del “nemico”.
Sono finiti i consolidamenti?
Molti sono stati fatti: noi stessi siamo il prodotto di una grande
fusione. Ma vedremo altri consolidamenti, anche se non è facile
prevedere dove, come, quando. C’è necessità di avere strutture
che condividano il più possibile i costi fissi e capaci di volumi
sempre più ampi, in grado di spesare investimenti in ricerca e
sviluppo dai ritorni incerti e di lungo periodo. Ci vogliono spalle
larghe.
Ma come può attrarre investimenti l’Italia?
Non voglio dare ricette. Ma è chiaro che anche l’andamento del
mercato interno conta. Una accelerazione degli investimenti in
nuove infrastrutture aiuterebbe ad indurre le multinazionali a
mantenere o aumentare la loro presenza in Italia, se non altro per
un discorso di prossimità. Se viceversa gli investimenti
decrescono significativamente, aumenta di converso la freddezza dei
grandi gruppi rispetto a quel Paese. Ci vogliono progetti
industriali in grado di mobilitare investimenti privati e pubblici
sulla base di un ritorno a medio-lungo termine. In Italia, le
possibilità ci sono: purtroppo, stiamo girando a vuoto. Se ci
fossero decisioni importanti a favore della ripresa degli
investimenti in infrastrutture di Tlc, la cosa non passerebbe
inosservata in aziende come la nostra, in termini sia di presenze
produttive locali, sia di ricerca.

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