L'ANNIVERSARIO

Bitcoin spegne 10 candeline: da moneta peer-to-peer alla rivoluzione fintech

Il 31 ottobre del 2008 veniva pubblicato il whitepaper di Satoshi Nakamoto sulla valuta digitale. Oggi, tra fluttuazioni del valore e allarmi dei regolatori, le banche si muovono con cautela ma riconoscono le prospettive del trading basato su nuovi strumenti. Ma restano i nodi del mining energivoro e della sicurezza

Pubblicato il 31 Ott 2018

Patrizia Licata

bitcoin

Mentre analisti e istituti finanziari esaminano prospettive e applicazioni delle criptovalute, la moneta digitale più famosa, il bitcoin, compie già dieci anni: il 31 ottobre del 2008 veniva infatti pubblicato il whitepaper “Bitcoin: un sistema di moneta elettronica peer-to-peer” firmato da Satoshi Nakamoto, pseudonimo dietro cui resta celato l’ideatore.

Nel whitepaper il misterioso inventore giapponese sottolineava la domanda di una moneta di Internet che potesse essere usata come mezzo di pagamento senza dover passare attraverso un intermediario, per esempio la banca. Nella visione di Satoshi Nakamoto, il bitcoin è uno strumento totalmente affidabile perché a crearlo e gestirlo sono computer e algoritmi di crittografia.

Il 3 gennaio 2009 furono prodotti (o minati, come si dice in gergo) i primi 50 bitcoin; il 5 ottobre dello stesso anno 1 bitcoin valeva 1.309 dollari; a fine 2017 la criptovaluta volava a quasi 20mila dollari; oggi un bitcoin ne vale circa 6.200, il 70% in meno del valore record dello scorso dicembre. Da inizio anno la criptovaluta introdotta da Nakamoto ha bruciato 184 miliardi di dollari, con il valore complessivo del mercato che è passato dai 294 miliardi di dollari dell’8 gennaio 2018 a 110 miliardi di dollari a inizio settembre.

La popolarità del bitcoin, simbolo dell’era del fintech, è stata infatti accompagnata da una crescente volatilità, frutto di speculazioni e di fortune altalenanti: salutata da alcuni come il futuro della finanza gestita in modalità distribuita e automatizzata e quindi virtualmente più sicura e trasparente, per molti regolatori il bitcoin rappresenta invece un rischio di destabilizzazione dei sistemi finanziari e si presta a utilizzi illeciti, dall’hacking al finanziamento di crimimalità e terrorismo fino alle truffe. Le autorità di Cina, Corea del Sud e Stati Uniti hanno intensificato lo scrutinio.

Il bitcoin è un osservato speciale anche sul piano dei consumi energetici: il mining con cui viene generata dai supercomputer la valuta digitale richiede intense operazioni di calcolo che consumano elettricità. Il pericolo, hanno indicato diversi studi, tra cui il più recente arriva dall’università delle Hawaii a Manoa, è che un tasso di diffusione simile ad altre tecnologie causi un innalzamento di 2 gradi centigradi della temperatura globale nel giro di 15 anni, superando il limite fissato a livello internazionale dall’accordo di Parigi sul clima. L’università delel Hawaii ha calcolato che produrre bitcoin nel solo 2017 ha causato l’emissione di 69 milioni di tonnellate di CO2.

Tra sostenitori e detrattori, anche le grandi banche si sono divise su fronti opposti: Morgan Stanley ha annunciato a settembre che offrirà la possibilità di fare trading in derivati legati ai bitcoin; al contrario la rivale Goldman Sachs metterà per ora in stand-by il progetto di avviare attività di scambio in valute digitali.

Le manovre delle banche di investimento restano limitate non solo per il quadro regolatorio incerto e le forti fluttuazioni delle valute digitali, ma perché volumi di scambi importanti per clienti istituzionali richiedono un forte investimento in infrastruttura tecnologica, compresi sistemi per la custodia sicura degli asset.

Resta la validità, riconosciuta da molti analisti e da un numero crescente di imprese, della tecnologia sottostante il bitcoin, la blockchain, le cui applicazioni vanno oltre la moneta per arrivare alla gestione in modalità decentrata, automatizzata, veloce e trasparente delle transazioni in una serie d industrie come la logistica e le spedizioni o nei servizi per i cittadini, tra cui la sanità.

A settembre negli Stati Uniti si è costituita la prima lobby di settore, la Blockchain Association, che dà voce a Washington D.C. a società come Coinbase e cerca di collaborare con la politica per capire come inquadrare le criptovalute sul piano regolatorio e fiscale.

In Europa è nato invece il primo fondo d’investimento regolato al mondo dedicato a società quotate e prodotti finanziari basati sulla tecnologia blockchain e sulle principali criptovalute: è il ConsulCoin Cryptocurrency Fund, il cui obiettivo è proporre uno strumento che abbracci le novità del fintech garantendo al contempo trasparenza e convenienza per gli investitori.

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