L'EDITORIALE

La democrazia non è anarchia: hate speech e fake news ledono le libertà

Il dibattito a seguito della rimozione degli account di Trump da Facebook e Twitter e delle ulteriori misure messe in atto dalle piattaforme contro cospirazionisti e gruppi “borderline”, rappresenta il segnale chiaro e forte che sono necessarie nuove regole e che le Autorità devono assumere un ruolo più forte. Dare voce e spazio a chiunque invocando il diritto alla libertà di pensiero deve fare il paio con responsabilità individuali e collettive

Pubblicato il 12 Gen 2021

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Il ban di Donald Trump da Facebook e Twitter, a seguito degli eventi di Capitol Hill, sta innescando a catena la rimozione di tutta una serie di account in capo a “cospirazionisti”, “odiatori” e di gruppi il cui unico obiettivo è diffondere fake news e teorie senza capo né coda. Tanto per restare alle ultime notizie Twitter ha chiuso 70mila account legati a Qanon, Amazon ha spento i server di Parler (che appena annunciato battaglia legale), Airbnb e PayPal prendono le distanze dalla destra americana bloccando alcuni utenti e sono molti i profili che stanno via via scomparendo dai social network per frutto della scure di Zuckerberg e compagnia.

In realtà nel corso del tempo sono stati migliaia i profili disattivati sulle piattaforme nel tentativo di arginare hate speech, bullismo ed episodi di violenza e diffamazione, con tanto di invio di video fra gruppi che hanno generato, nei casi più gravi, persino il suicidio delle vittime. Ma la cancellazione degli account del presidente Usa ha scatenato un dibattito come non si era mai visto. Eppure sono anni che si discute della questione dell’hate speech e delle fake news e del ruolo dei social network come “veicoli” di “spazzatura”, anche se non sono gli unici: migliaia i blog e i siti creati ad hoc per diffondere false notizie e teorie ed anche per vendere prodotti illegali. Si pensi a quanto accaduto dallo scoccare della pandemia da Covid19: in molti casi è stato necessario l’intervento delle Autorità, in Italia si è spesa molto l’Antitrust, per arginare la vendita di prodotti spacciati come “miracolosi” per la cura del virus ma anche per evitare il rimbalzo in Rete di notizie non supportate da evidenza scientifica.

Nonostante gli eventi gravi di Washington (ci sono stati dei morti per chi avesse rimosso subito la cosa) la chiusura degli account di Trump ha fatto più notizia di qualsiasi notizia. E il partito dei “nessuno tocchi Caino” si sta dimostrando molto attivo. Che la libertà di espressione e di pensiero vadano garantiti e tutelati è principio cardine delle democrazie, ma checché se ne pensi i social network non sono “democratici” nel senso politico e sociale del termine. Piuttosto si sono dimostrati luoghi “anarchici” nonostante le regole e le misure prese nel corso degli anni dagli stessi colossi del Web ai quali è evidente ce la situazione sia sfuggita di mano.

Gestire e verificare centinaia di milioni di account non è una passeggiata e quel che sta accadendo dimostra che le piattaforme social non possono farcela da sole. Anche perché c’è di mezzo la questione del “libero arbitrio”, ossia del decidere chi sia degno di rimanere attivo e chi no, che non può restare nelle mani di società private diventate vere e proprie economie e Stati. Gli algoritmi sono in grado di fare delle scremare, ma continuano a proliferare gli account privi di “identità” ossia non immediatamente riconducibili a persone. Account attraverso cui vengono perpetrati in continuazione campagne d’odio, insulti e via dicendo. È evidente che non si può continuare su questa strada. Ed è evidente anche che la “favola” della rete libera e democratica non regga più. La democrazia non è anarchia e non si può sdoganare il concetto che libertà di espressione e libertà di insulto siano la stessa cosa, l’uno vale uno. La stretta è indispensabile: che sia attraverso norme, interventi delle autorità o misure di altro genere sicuramente qualcosa va fatto.

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