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Non solo bitcoin. Parte la carica delle criptovalute “bonsai”

Una vera e propria Babele del peer-to-peer: oltre duemila gli “altcoin” alternativi pensati soprattutto per nicchie e usi molto specifici. Ma si fidano in pochi a usarli per le transazioni

Pubblicato il 16 Mag 2019

Antonio Dini

bitcoin

I bitcoin hanno cambiato il mondo dell’economia e soprattutto della finanza, introducendo un nuovo modo di pensare i mercati valutari con una moneta digitale peer-to-peer basata sulla blockchain, inventata dallo sconosciuto (e misterioso) Satoshi Nakamoto, alias di un personaggio che non si è mai riusciti a identificare con certezza. E la blockchain stessa si è rivelata una invenzione tecnica di alto livello, riutilizzabile per molteplici scopi.

Assieme ai bitcoin sono nate alcune altre criptovalute, come Ethereum e un pugno di altre. Che però hanno attraversato un decennio fatto di supervalutazione e poi improvvisi crolli, senza contare il rischio-truffa. Ma adesso, si sta aprendo una nuova stagione, fatta da oltre duemila microvalute digitali, dei bitcoin bonsai.

Chiamati “altcoin“, moneta alternativa, sono piccoli ma stanno diventando sempre più radicati in nicchie e ambiti particolari, creando un movimento che collettivamente sta crescendo più velocemente di quello delle criptovalute tradizionali. Una specie di Babele delle valute peer-to-peer digitali, utilizzate da sviluppatori o piccoli social, in comunità ristrette e per scopi particolari, ma comunque in maniera radicata.

Il mercato delle criptovalute vale oggi circa 240 miliardi di dollari, di cui il 60% sono bitcoin. Solo due anni fa erano il 90%. Dopo lo zenit del 2017, insomma, la criptovaluta che ha fatto cominciare tutto si avvia forse verso il suo nadir, con buona pace di chi lo aveva immaginato come bene di rifugio digitale. E anche se ci sono delle accelerazioni – quest’anno il suo valore è quasi raddoppiato – in realtà ha perso tre quarti del suo valore nel 2018 e l’impressione è che si assista a fiammate meramente speculative.

La volatilità del bitcoin ha spinto molti investitori – dai fondi di pensione ai patrimoni gestiti – ad allontanarsi dal bitcoin dopo essersi scottati, e la loro dipartita viene vista in maniera molto negativa dagli analisti e dal mercato, che considerano queste categorie di investitori mainstream come gli unici capaci di trasformare una speculazione in un valore consolidato.

Rimangono tutti quelli che avevano assaggiato il frutto proibito della criptovaluta, oggi in cerca di altri asset simili, con l’idea di poter cavalcare la prossima onda di crescita. Tra l’altro, ultimo problema dei bitcoin, è stato il fallimento sostanziale per l’altra funziona della moneta, cioè come mezzo di pagamento. In pratica, non c’è nessuno che vada a far la spesa con i bitcoin (o che li accetti come strumento di pagamento), creando un problema di sostanza per la loro crescita.

Ed ecco dunque che arrivano gli altcoin o criptovalute bonsai. I nomi sono i più svariati: Binance Coin, Bitcoin Cash, Tether, Monero, Dash. Dietro ci sono algoritmi e protocolli differenti, alcuni che potenziano la sicurezza, altri pensati per ottimizzarne l’estrazione digitale, altri per occuparsi della loro registrabilità. Interessano sottoinsiemi di mercato, rispetto all’approccio più ecumenico che ha caratterizzato la fase di crescita maggiore dei bitcoin, ma sono comunque radicati in alcuni ambiti particolari. Soffrono comunque di una certa volatilità e non vengono quasi mai utilizzati come vero strumento di pagamento. Ma hanno quasi tutti la stessa ambizione: correggere i problemi evidenziati dai bitcoin. E, come accade nel mondo del software, prima o poi qualcuno di loro ci riuscirà.

A fare la parte da gigante sono i due che coprono circa un quinto del mercato da soli: Ethereum e Xrp, con 22 e 17 miliardi di dollari di circolante. All’altro lato dell’arco delle criptovalute ci sono le meno usate e meno liquide: AnarchistCoin e CryptoPing. A spingerle è comunque il bisogno di nuova innovazione in questo settore, soprattutto ripensando e migliorando il meccanismo delle blockchain, che possono in effetti essere costruite in molti modi.

Ma il segnale che una di queste monete riesca veramente a farcela è uno solo: diventare de facto lo standard per i pagamento online, la “divisa della rete”, la criptovaluta digitale più usata. I bitcoin erano nella posizione per arrivare a questo requisito ma stanno perdendo la posizione di dominio che avevano parzialmente raggiunto. Secondo alcuni, nonostante questo fosse l’obiettivo dei bitcoin, il progetto sarebbe stato pensato e creato troppo presto, quando mancano ancora troppe tecnologie per poter raggiungere un buon equilibrio. Altri progetti di criptovaluta hanno adesso le carte giuste in mano.

Una distinzione tra gli altercoin per risolvere i problemi dei bitcoin è stata quella scelta da alcune valute: agganciare il valore della valuta a una valuta tradizionale, come il dollaro. Un elemento che inibisce il rischio della volatilità e della speculazione selvaggia. Ma blocca molti investitori che non ci vedono margini di guadagno.

Molte altre criptovalute invece sono sostanzialmente delle variazioni sul tema dei bitcoin, alcune – poche – con intenti truffaldini, molte altre semplicemente per creare una valuta proprietaria con meno rischi di speculazione e di volatilità.

Nell’ultimo trimestre gli altcoin hanno performato molto meglio dei bitcoin e in generale stanno diventando sempre più un punto di riferimento per gli investitori anche istituzionali. Ad esempio, riporta Reuters, Grayscale, il più grande asset manager di criptovalute al mondo, con base a New York, segnala che su un complessivo di 1,3 miliardi di dollari di investimenti in moneta digitale, durante ogni settimana in media gli scambi di bitcoin sono attorno ai 3,9 milioni di dollari di valore mentre gli altcoin stanno salendo, attestandosi a quota 1,2 milioni. Un mercato, insomma, che a questo punto è piccolo solo di nome.

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