LA SENTENZA

Schiaffo della Corte Suprema Usa ad Apple: sì alla class action sui prezzi delle app

I consumatori potranno portare in tribunale la Mela. La commissione del 30% considerata troppo elevata, al punto da non consentire lo sviluppo di alternative sul mercato. Ma l’azienda non ci sta: “L’Apple Store non è un monopolio”

Pubblicato il 14 Mag 2019

Antonio Dini

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Guerra dei dazi tra Cina e Usa che impatta il più grande mercato di Apple fuori dagli Usa, ma anche parere della Corte suprema Usa che dà torto a Tim Cook: i consumatori potranno fare una class action contro Apple per i prezzi troppo elevati delle applicazioni. È un doppio colpo che fa rischiare il k0 in Borsa ad Apple, con titolo in picchiata.

La giornata nera di Apple si apre con le notizie internazionali: il rialzo dei dazi voluti da Donald Trump che tocca un nervo sensibilissimo delle trimestrali di Apple, cioè il rapporto con il paese in cui vengono prodotti i suoi iPhone e che è uno dei principali clienti, anche se in forte difficoltà.

Ma il colpo diretto viene dalla decisione della Corte suprema, che con 5 giudici a favore e 4 contrari giudica ammissibile una possibile class action degli utenti che ritengono che la commissione del 30% stabilita da Apple per le vendite delle app sul suo App Store sia troppo elevata e venga passata ai consumatori, in un uso scorretto della suo potere di controllore unico, e quindi monopolista, della vendita delle app. La causa legale è ancora all’inizio, ci sono vari altri passaggi prima che possa essere effettivamente discussa in una corte e i risultati sono ovviamente tutt’altro che decisi, ma la Borsa giudica la decisione di ammissibilità come un attacco frontale ai danni di Apple e del suo modello di business costruito attorno all’App Store, che rappresenta una significativa parte del fatturato e soprattutto degli utili dell’azienda.

La materia è complessa, ma il giudizio della Corte è netto: a far pendere il piatto della bilancia dalla parte dei consumatori è stato il giudice Brett Kavanaugh, l’ultimo entrato nella Corte per nomina di Donald Trump. Kavanaugh ha scritto il parere di maggioranza sottoscritto dagli altri quattro giudici di orientamento liberale. In sostanza, gli utenti iPhone – sostiene la Corte – sono liberi di portare avanti una causa antitrust che riguardi il potere di controllo esclusivo sul software venduto tramite la piattaforma iOS con l’App Store da parte di Apple.

Il punto sollevato dalle associazioni di consumatori che ha convinto cinque giudici su nove è che la commissione del 30% richiesta da Apple per tutte le app vendute attraverso lo store sia un esercizio indebito del suo potere di monopolista delle vendite di software. E che le software house terze parti non assorbano ma passino ai consumatori la “tassa” di Apple aggiungendola al prezzo finale delle app, che viene stabilito da loro stessi.

La difesa di Apple era invece organizzata proprio attorno a questo punto: il prezzo finale viene stabilito autonomamente e liberamente dai produttori del software, Apple come da accordo contrattuale si limita a chiedere una fetta del 30% per le spese sostenute nella gestione dello store e nella erogazione delle app al momento dell’acquisto da parte dei clienti, e quindi sono questi produttori ai quali gli utenti dovrebbero fare causa se giudicano i prezzi ingiustamente elevati. 

Il giudice Kavanaugh però non ha ritenuto che questa linea fosse corretta: «La demarcazione – ha scritto nel parere legale di maggioranza – che viene portata avanti da Apple non ha molto senso, tranne che per tentare di esentare Apple da questa e da altre cause analoghe». Nelle ore successive alla pubblicazione del parere il titolo di Apple ha perso il 5%.

Il tema dell’App Store e del diritto di Apple di guadagnare il 30% su tutto il software venduto dagli sviluppatori terze parti in cambio del servizio di hosting e di deployment, lasciandoli liberi di stabilire la cifra finale (e non facendo pagare niente a chi lascia le app gratuite, ma chiedendo un terzo anche delle vendite in-app e degli abbonamenti sottoscritti attraverso l’app) è complesso ma da sempre guardato in modo scettico dai difensori del libero mercato. La pratica è però seguita anche dalle altre aziende in competizione con Apple: Amazon, Facebook e Google. 

Apple ritiene questo parere, che autorizza a procedere la causa solo come una sconfitta temporanea: «Siamo fiduciosi – ha scritto l’azienda in un comunicato – che le nostre ragioni prevarranno quando i fatti verrano presentati e si vedrà che l’App store non è in alcun modo un monopolio».

Intanto, in Europa Apple sta affrontando un problema simile: da noi la Ue sta indagando sulle accuse fatte da Spotify (azienda svedese con sede nel Lussemburgo) in base alle quali Apple avrebbe esercitato scorrettamente il suo potere di monopolista mettendo limitazioni ai suoi rivali soprattutto nel settore delle app musicali e in streaming. L’accusa verso Apple è infatti quella di penalizzare la concorrenza a tutto vantaggio dei suoi prodotti analoghi, venduti sempre attraverso l’App Store, come nel caso di Musica e della sottoscrizione allo streaming con pagamenti mensili e annuali. Gli abbonati a Spotify, sostiene l’azienda svedese, devono pagare 30 centesimi al mese per l’utilizzo dell’App Store: un balzello considerato ingiusto.

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