L’INTERVISTA

Panetta: “L’illusione della tecnologia non è vera alternativa ai diritti”

L’avvocato specializzato in Internet e Privacy e country leader di Iapp: “C’è il rischio, che, con la compressione delle libertà e il lockdown prolungato, ci si abitui a troppi surrogati digitali al posto del godimento delle libertà costituzionali”

Pubblicato il 20 Apr 2020

rocco panetta

“Stiamo vivendo un momento di negazione di molte delle libertà fondamentali. Con l’emergenza coronavirus si è verificata una delle possibili variabili che la Costituzione prevedeva, ossia la temporanea compressione di diritti e libertà in ragione dello stato di necessità. La tempesta perfetta causata dalla pandemia in corso ha di fatto congelato la società, bloccato le attività lavorative, sociali e produttive e creato numerosi corto circuiti che come nel gioco del domino hanno travolto l’intera catena delle relazioni ed azioni individuali e collettive. L’esigenza di salvaguardare un bene ed un diritto primario individuale e collettivo al tempo stesso, quello della salute, prevale inevitabilmente sulle altre libertà individuali, quali il diritto alla libertà di manifestare e circolare sul territorio dello Stato, il diritto alla libertà di impresa, il diritto ad esercitare la libertà di culto, il diritto al lavoro e alla scolarizzazione, il diritto alla protezione dei dati personali, il diritto o far valere diritti in giudizio o alla difesa, solo per citarne alcuni. Ma per rimanere nell’alveo della liceità si deve trattare di compressioni temporanee di queste libertà, che prevedano una pronta decompressione ed un ritorno rapido alla cosiddetta normalità. In questo quadro l’ausilio della tecnologia, che pure offre delle soluzioni meravigliose, non deve portarci a un’assuefazione che ci faccia in prospettiva perdere la volontà di esercitare e godere di alcuni diritti”. Lo dice in un’intervista a CorCom Rocco Panetta, Country Leader per l’Italia e Membro del CdA di Iapp, l’International Association of Privacy Professionals, avvocato specializzato in diritto della Privacy, allievo di Stefano Rodotà ed ex Dirigente del Garante italiano. 

Panetta, c’è il rischio che ci si abitui a “surrogati” digitali dei nostri diritti?

Questa è una domanda bellissima che evoca temi giuridici, ma allo stesso tempo anche sociologici, antropologici e soprattutto etici: tutte categorie che devono viaggiare insieme se vogliamo analizzare il momento in modo obiettivo. L’idea di poter sopperire con la tecnologia a una serie di bisogni legati alla produttività, si pensi al lavoro agile, ma anche alla socialità, si pensi alle chat di gruppo, ha una valenza indiscutibile, ma certe misure devono valere per un periodo limitato. La dimensione economica di questa emergenza è certamente importante quanto quella sanitaria. Ottimo dunque il lavoro agile – che peraltro dovremmo smettere di chiamare smart working dato che all’estero si usa piuttosto l’acronimo Wfh che significa Work From Home e se gli dici Smart Working molti non capiscono. Anche nel mio Studio professionale lavoriamo da remoto da più di un mese e mezzo ed ho già detto a tutti che anche una volta finito il lockdown istituzionalizzeremo il lavoro da remoto ogni venerdi. Ma dobbiamo tornare ad incontrarci, a fare riunioni dal vivo, a guardarci negli occhi, a viaggiare per lavoro e per svago. La tecnologia quindi è importante, ma non dobbiamo cadere nella trappola che siccome ci sono i servizi in streaming potremo fare a meno per sempre del cinema, del teatro o della musica dal vivo. E non vale l’idea di assistere “comodamente seduti sul divano” agli spettacoli. Perché c’è una dimensione umana di empatia che non può essere sottovalutata e a cui non si può pensare di rinunciare. Per questo, il lockdown dovrà rimanere una misura temporanea di compressione della libertà individuale, proprio come è previsto dalla Costituzione. Ci saranno i tamponi, i test sierologici, l’app per il contact tracing, ma l’obiettivo deve essere quello di tornare a fare – in sicurezza – ciò che facevamo prima. Detesto chi dice: nulla sarà più come prima. 

Quanto è alto il rischio di assuefarsi a questa condizione di emergenza?

Da diverse settimane ci è stata tolta per legge la possibilità di fare alcune cose, e la possibilità di godere di alcuni nostri diritti in maniera surrogata rischia di confonderci le idee. La società italiana ha responsabilmente risposto e rispettato le regole nel 90% dei casi. Però adesso per favore niente deleghe in bianco alla tecnologia. Non consentiamo agli algoritmi di modulare il godimento delle nostre libertà. Per evitare ciò occorre arricchire la tecnologia della dimensione giuridica ed etica che ci impedirebbe di dar vita alla tanto paventata “dittatura delle macchine” o dei processi tecnologici. Bisogna avere sempre ben chiaro quello che il professor Stefano Rodotà ha sintetizzato nel manifesto di una vita che è il suo libro “Il diritto di avere diritti”. I diritti e le libertà sono una conquista e pertanto essi vanno alimentati, ricordati, insegnati, esercitati e tutelati. Ma soprattutto non dobbiamo mai perdere la spinta a godere delle nostre libertà ed a reclamarne il diritto.  

In questo ragionamento rientra anche l’app per il contact tracing scelta dal governo? 

L’app Immuni è stata oggetto di una selezione attenta da parte di una nutrita task force di esperti, in cui siedono anche le Autorità di garanzia, e su cui c’è quindi da riporre la massima fiducia, sebbene il dibattito al momento stia mettendo a nudo numerose e legittime criticità. Nel processo di selezione delle soluzioni tecnologiche sono certo che siano stati valutati vari fronti, tra i quali quello etico-giudico, tenendo di certo conto del rispetto delle normative su libertà e di diritti fondamentali. Dal momento che la app si nutre di dati, che possono essere personali, anonimi o pseudonimi, servono però meccanismi che ne blocchino il riuso libero in violazione del principio di finalità, la retention ad libitum o l’utilizzo improprio. Per evitare che la tecnologia ci illuda di poter risolvere i nostri problemi e sostituirsi all’uomo, occorre fare sempre una valutazione che tenga conto di due parametri fondamentali: l’applicazione deve evitare il rischio di discriminazione e di stigmatizzazione, permettendo a tutti di godere del principio di uguaglianza, anche in situazioni eccezionali e di emergenza. Il principio di uguaglianza che tutela la dignità dell’individuo non è mai comprimibile. Non deve essere quindi possibile che si discrimini in alcun modo chi non utilizza l’app rispetto a chi la utilizza, né che i dati che emergono dal contact tracing possano servire a stigmatizzare alcune persone. Detto questo, è importante trovare la soluzione migliore senza alzare continuamente l’asticella, e pensare – come alcuni stanno facendo – a introdurre un braccialetto elettronico per coprire quelle fasce d’eta più deboli o quanti si rifiutino o non possano usare l’app. La deriva autoritaria della società della sorveglianza e l’assuefazione psicologica all’ineluttabilità della perdita di libertà di fronte alla tutela della salute grazie alla tecnologia va evitata. Lo scontro tra i diritti non è la soluzione, anzi è il male assoluto. 

Non c’è il rischio che i cittadini, provati da tante settimane di lockdown, possano considerare accettabile il chiedere una sorta di “baratto” tra una maggiore libertà di movimento e la cessione di alcuni diritti fondamentali?

Sì, soprattutto se il legislatore fa fatica a spiegare la dimensione di libertà, come invece ad esempio riesce a fare molto bene il Papa. In una situazione complessa come questa occorre bilanciare e modulare tanto le chiusure quanto le riaperture, senza blocchi al godimento di diritti che possano essere giustificati dal ricorso alla tecnologia, creando in tal modo pericolose contrapposizioni tra salute e privacy, ad esempio. E’ sempre sterile e sconfortante il dibattito su temi che contrappongono questi due diritti che sono nati per coesistere e per garantire l’uno il godimento dell’altro. Chi studia questi fenomeni, complessi ed altamente tecnici, lo sa da sempre. Spiace leggere nelle dichiarazioni di scienziati, politici, artisti spesso il disprezzo e la banalizzazione della privacy, intesa come diritto alla protezione dei dati piuttosto che di mero e più debole diritto alla riservatezza, credendo di vincere facilmente puntando sulla difesa del solo diritto alla salute. La tutela dei dati è il più etico ed umano dei diritti proprio perché aiuta a contrastare stigmatizzazione, discriminazione e disuguaglianza ed aiuta anche a meglio tutelare la salute rendendo disponibili, sicure ed interoperabli le informazoni personali proporzionate all’uso ed aggiornate.   

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