L'APPELLO

Caso Facebook, gli inserzionisti: “Serve organismo di controllo”

Nel mirino non c’è però solo la “creatura” di Zuckerberg. Riflettori puntati su Google, in particolare su YouTube. E Londra minaccia pesanti sanzioni. Carlo Noseda (Iab Italia): “La vicenda Cambridge Analytica non si ripercuote solo sul business del social network, ma dell’intera industria della pubblicità digitale. Serve un framework comune e condiviso sull’utilizzo dei dati”

Pubblicato il 22 Mar 2018

Patrizia Licata

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Lo scandalo Facebook-Cambridge Analytica non riguarda solo il mondo dei social network, ma tocca da vicino anche quello dell’advertising: è verso Facebook e Google che si indirizza la gran parte della spesa pubblicitaria sui media digitali e ora agenzie e brand temono che comprare ads sui social significhi a volte, indirettamente, finanziare attività alle quali non vogliono essere associati. Per questo alla Advertising Week Europe di Londra Facebook e Google (soprattutto come proprietaria di YouTube) si ritrovano ancora una volta sulla griglia.

Dalle ads politiche tendenziose che avrebbero favorito l’elezione di Donald Trump in America al recente caso Cambridge Analytica, con l’uso illecito di dati di 50 milioni di utenti americani di Facebook, definito dal Garante europeo della privacy Giovanni Buttarelli “solo la punta dell’iceberg”, gli inserzionisti sono ormai pienamente consapevoli che pagare le ads che appaiono sulle piattaforme Internet dominanti potrebbe essere un investimento “tossico” per i brand e per la società intera. Le promesse di Facebook di portare i grandi marchi sulle bacheche di tutti i suoi utenti non sono affidabili: l’anno scorso l’azienda garantiva di poter raggiungere negli Usa 41 milioni di giovani fra i 18 e i 24 anni quando negli Usa i giovani in quella fascia di età sono solo 31 milioni. Inoltre, secondo le stime riportate oggi dal Times di Londra, appena il 25% dei soldi spesi dagli inserzionisti su Facebook e Google raggiunge il consumatore.

Ora all’Advertising Week Europe gli inserzionisti “chiedono il conto” a Facebook e Google: l’idea è quella di spingere i colossi del web a istituire un organismo indipendente di controllo sui contenuti che appaiono sulle loro piattaforme, con regole comuni e trasparenti. Tale organismo, ha detto Phil Smith, direttore generale dell’Isba, associazione che rappresenta i principali inserzionisti in Uk, avrebbe il fondamentale compito di mettere fine alla “privatizzazione della regulation”.

“Il caso Cambridge Analytica mette in evidenza la difficoltà di un colosso del web come Facebook di garantire la tutela dei dati dei propri utenti, ossia delle fondamenta su cui si basa la legittimità del social network stesso – commenta Carlo Noseda, Presidente di Iab Italia – Il possesso di dati sensibili che tracciano l’identikit online di miliardi di persone porta inevitabilmente una maggiore responsabilità sociale da cui i big del settore non possono sottrarsi, e che anzi, dovrebbero curare con maggiore attenzione”.

“Questa falla – prosegue Noseda – si ripercuote non solo sul business di Facebook, ma dell’intera industria della pubblicità digitale che in Italia si traduce in oltre 2,65 miliardi di euro di investimenti pubblicitari e un indotto che cuba oltre 58 miliardi e 260 mila persone impegnate a tempo pieno. Ecco perché un framework comune e condiviso sulla trasparenza nell’utilizzo dei dati da parte delle società diviene ancora più urgente. Come associazione a livello europeo, stiamo portando avanti il Gdpr Transparency & Consent Framework, in grado di fornire a editori, inserzionisti e aziende adtech strumenti comuni con cui riconoscere e comunicare il consenso del consumatore per la pubblicazione di contenuti e pubblicità in linea con il Gdpr, impedendo così ai player di utilizzare i dati degli utenti per scopi diversi da quelli inizialmente dichiarati. In questo modo si dovrebbe garantire una maggiore tutela sia nella fase di raccolta, che di utilizzo dei dati degli utenti. Una prospettiva nobile, che vorremmo fosse sposata diligentemente da tutti gli operatori – grandi o piccoli che siano”.

Non basta cioè che Facebook abbia promesso di potenziare il suo team di moderatori portandolo a 20.000 persone e che Google voglia allargare il suo a 10.000 addetti: le regole sui contenuti e le azioni di vigilanza di Facebook e Google non possono essere stabilite da Facebook e Google; i criteri devono essere super partes, dicono gli advertiser.

Il governo britannico è pronto al pugno duro, sulla falsariga di quello tedesco: Londra studia una legge che multerebbe fino a 50 milioni di euro le aziende dell’online che non rimuovono le fake news in 24 ore o addirittura equiparerebbe le piattaforme online come Facebook e YouTube agli editori di giornali, con tutti i vincoli che ciò comporta. Ma molti osservatori pensano che la soluzione migliore sarebbe uno standard internazionale, sul modello dell’Advertising Standards Authority, che supervisiona da 56 anni l’industria della pubblicità Uk, ma su scala globale.

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