L'INTERVISTA

Pennarola: “Advertising, l’Italia si svegli”

L’esperto: “I nostri player devono diventare champion oppure capire quale ruolo possono giocare nella catena globale. Dobbiamo decidere per cosa siamo speciali”

Pubblicato il 16 Lug 2013

Giovanni Iozzia

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Svegliamoci! E’ l’invito-rimprovero di Ferdinando Pennarola, docente del dipartimento di Management e Tecnologia della Bocconi ed esperto di change management, rivolto all’Italia e all’Europa. Il mondo è cambiato: le imprese information based non hanno necessità di grandi collegamenti con i territori dove fanno business. Attestarsi su una linea difensiva è inutile, dichiarare guerra a Google&Co. è combattere con i mulini a vento. Bisogna capire il cambiamento e lavorare per creare campioni italiani e continentali in grado di competere sulla scena globale. Per capire è necessario leggere un processo in atto da tempo, che porta verso la concentrazione.
“Non voglio partire da lontano, ma dopo la seconda guerra mondiale la curva dell’export si impenna, progressivamente si sono ridotti i protezionismi, poi c’è stato l’innesto delle tecnologie che ha impresso una nuova velocità, grazie anche ai geni della Silicon Valley. Ricordiamoci che l’Ict è l’unico settore al mondo che ha visto nascere i primi billionaire in una sola generazione.
La concentrazione è quindi un effetto della tecnologia?
Anche. Permette business model ad altissima concentrazione e con costi di globalizzazione bassissimi. Gli anni 80 sono stati la stagione del software. Quando Steve Jobs è tornato in Apple, ha dato una sterzata in questo senso. Riprodurre il software costa molto poco e i processi di localizzazione sono gestiti centralmente. Altro che Fiat! Poi alla fine degli anni 90 è arrivata Internet ed è stato il cambio di paradigma.
In che direzione?
Ha dato a tutti la possibilità di creare una multinazionale. Ha funzionato da amplificatore della tendenza in atto. Google arriva nel 2004 ed è la massima sintesi di software e Internet e, quindi, è naturalmente centralizzata. Gli Ott per loro natura prevedono la centralizzazione di processi e risorse. Lo diceva già Chris Anderson nel libro “La coda lunga” nel 2004.
Non si può fare nulla contro l’ingordigia degli Ott?
Qualcosa si può fare: capire quale ruolo le altre aziende possono avere in un’economia digitale, capire come i processi di business possono approfittare del cambiamento, secondo i settori in cui si opera. Ma tutti devono riflettere sui loro modelli di business e capire se sono adeguati alla nuova era digitale. È questione di change manager.
Si spieghi meglio.
Prendiamo un leader globale italiano, Luxottica. Perché andare in negozio a provare gli occhiali? Ci sono software che permettono la prova virtuale. Fare change management significa analizzare la catena del valore e vedere quali pezzi sostituire con soluzioni digitali. Più lo si fa più si riesce a farlo velocemente e tanto più si diventa come Google. Se Luxottica implementasse un modello dstributivo digitale, diventerebbe il Google degli occhiali. E ci sarebbe qualcuno che si lamenterebbe perché una compagnia italiana preleva risorse dal suo Paese per portarle altrove.
Facile a dirsi, ma a farsi?
È vero non sono processi immediati. Ma il change management è decisivo. Gli operatori tlc hanno raggiunto una complessità di prodotto mostruosa, un ginepraio di offerte e tariffe che ha trasformato i negozi in help desk. Non va bene. Google la fa semplice. Altri invece riescono a inventarsi prodotti talmente complessi che non riescono più a gestire online. La storia dice che quando si comincia a complicare un prodotto, arriva qualcuno dal basso con una proposta semplice e cambia le regole del gioco.
Non è che Google&Co, hanno tendenze “imperialiste”?
Gli infomediari come Google stanno entrando nei business di altri e continueranno a farlo perché glielo lasciano fare. I trasporti, per esempio, hanno ancora una catena del valore a bassissimo contenuto digitale. Nell’epoca della geolocalizzazione in autostrada abbiamo ancora i cartelloni con le lettere luminose! Manca la gestione dell’informazione in tempo reale. Se Autostrade, Anas, Benetton non pensano a questo business, lo farà qualcun altro.
E perché non lo fanno?
Devono svegliarsi e vincere le resistenze che il cambiamento incontra. Dobbiamo credere che sia possibile avere player europei, e quindi italiani, in grado di seguire il footprint globale.
Quindi non ha senso difendersi?
È una battaglia persa, non ci sono alternative alla concentrazione.
Dobbiamo rassegnarci a un’onorevole resa?
No, dobbiamo far sì che i player italiani siano dei champion in grado di giocare la stessa partita. Oppure cercare di capire qual è il nostro ruolo nella catena globale del valore. In India hanno capito che avevano grandi competenze a basso costo e adesso tutti vanno lì. La concentrazione è inevitabile ma dove stanno i centri non è deciso. L’Italia deve decidere per cosa è “speciale” (food, fashion, design), darsi una mossa ed essere più attraente per gli investimenti internazionali.

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