Export di bit, una manna per gli Usa

Il business di Google & co. impatta (e non poco) sulla bilancia commerciale. Il digitale diventa merce di scambio a tutti gli effetti

Pubblicato il 09 Mag 2011

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I nuovi store, cioè i mercati digitali nati per commercializzare
contenuti ed applicazioni per terminali avanzati, hanno già
iniziato a cambiare le regole secolari del commercio
internazionale. Questi mercati di ultima generazione hanno alcune
caratteristiche che, inevitabilmente, da qui a qualche anno
impatteranno sui flussi finanziari transnazionali e sui meccanismi
di contabilizzazione di esportazioni ed importazioni.

Tramite gli store lanciati, ad esempio, da Google, Apple o Samsung,
già si commercializzano milioni di oggetti digitali scaricabili, a
pagamento o meno, dai consumatori di tutto il mondo. Pochi mercati
elettronici globali, dunque, ma flussi di acquisto mondiali. Chi
esporta sono oggi e lo saranno sempre di più nel futuro i paesi
“proprietari” degli store, cioè quelli dove sono localizzate
le imprese che li possiedono. Gli Stati Uniti nel caso di Apple o
Android di Google, la Corea del Sud nel caso di Samsung. Ciò
significa che l’export mondiale di queste nazioni è
inesorabilmente destinato ad aumentare nel corso degli anni a
discapito di quello finora appannaggio di altri paesi.

In qualche modo, nel prossimo futuro una parte importante
dell’export digitalizzato sarà intermediato ed originato da
pochi paesi. L’Europa ad oggi è in forte difficoltà, ad
esempio, nel trovare un proprio ruolo effettivo e difendibile nel
medio termine. Chi esporta verso gli store? Tutte le imprese
produttrici di contenuti o applicazioni commercializzabili tramite
questi mercati elettronici. I produttori di merce non fisica
intermediabile ed intermediata dagli store sono, al pari dei
consumatori, soggetti globalizzati, nel senso che possono risiedere
in Nuova Zelanda o in Africa del Sud senza alcun problema.
Accettando di commercializzare la propria app tramite uno store
implicitamente accettano di esportare verso Google o Apple e quindi
di innescare un flusso di scambio con gli Usa.

In questa realtà si creerà una forte concentrazione delle
esportazioni finali ed una polverizzazione delle importazioni dai
paesi produttori di contenuti o applicazioni commercializzabili
dagli store. Una originale ed atipica composizione del commercio
internazionale: pochissimi paesi esportatori in tutto il mondo che
incassano un sostanziale margine di guadagno per il servizio svolto
pari ad almeno il 30% del valore esportato annualmente ed una
moltitudine di esportatori verso gli store localizzati in ogni
paese del mondo.

Pochissimi paesi esporteranno, guadagnandoci bene, i contenuti
degli store, mentre tutti gli altri produrranno i contenuti da
vendere. Proiettata tra cinque o dieci anni questa dinamica offre
la visione più nitida di come e di quanto il tradizionale
commercio internazionale fatto di scambi fisici di beni rischia di
essere rivoluzionato.
Avere la capacità di esportare verso gli store impatterà sulle
bilance commerciali dei paesi che potranno, ad esempio, registrare
positivi flussi di export nel caso in cui sapranno ospitare molte
imprese, produttrici di applicazioni o contenuti, competitive. La
bilancia commerciale americana, invece, potrebbe essere molto
aiutata da questo cambio di paradigma che permetterà agli Stati
Uniti di contabilizzare ogni anno miliardi di dollari di
esportazioni che nei fatti sono una semplice intermediazione
commerciale.

Innovare con successo offre sempre dei buoni ritorni economici. Nel
caso degli store l’innovazione sarà sistemica e a beneficiarne
saranno quei paesi che più e meglio degli altri sapranno
posizionarsi nel nuovo flusso degli scambi commerciali globali. Si
tratta di una partita aperta e nella quale ciascuno ha la
possibilità di dire la sua, salvo sul fatto della localizzazione
degli store.

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