L'INTERVISTA

Ragosa: “Ecco la mia sfida sugli open data”

Il direttore dell’Agenzia per l’Italia digitale: “Non è un tema che riguarda soltanto l’Agenda digitale. E’ il tema dei temi, quello su cui l’industria italiana si gioca il futuro. Serve un progetto Paese affinché i dati possano far crescere occupazione e Pil”

Pubblicato il 15 Lug 2013

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Da qui a fine anno si decide una grossa fetta della nostra economia digitale, di cui gli open data sono una colonna portante. “Già, l’hanno capito in pochi: vedono gli open data come uno dei temi dell’Agenda digitale, magari pure uno secondario, e invece è il tema dei temi. Quello per cui la nostra industria nazionale Ict si gioca il futuro. Farebbe bene a essere pronta a questo e noi l’aiuteremo”. Promessa di Agostino Ragosa, direttore dell’Agenzia per l’Italia Digitale, che in questi giorni sta elaborando la strategia nazionale sugli open data, da completare entro il 2013. Sono due le direttrici: da una parte, predisporre i dati della PA; dall’altra – aspetto meno scontato – preparare una politica industriale e un progetto Paese perché questi dati siano effettivamente valorizzati in servizi utili a far crescere occupazione e Pil. “Una sfida enorme. E l’Italia è in grande ritardo”.

Open data, fenomeno mondiale. Che dobbiamo fare perché anche l’Italia lo sfrutti per crescere?

Ormai è assodato che, con l’apertura dei sistemi informativi pubblici, miliardi di informazioni diventano dati trasformabili in servizi utili a cittadini e imprese. Ma perché questo accada bisogna fare una cosa importante. I dati devono essere organizzati per essere gestiti in questo modo. Devono essere “stoccati” (archiviati) da qualche parte e descritti per poter essere compresi ed utilizzati in maniera non ambigua. Immaginiamo fabbriche di qualche tipo: gli americani parlano proprio di digital data farm o digital data factory. Questo cambia il paradigma con cui eravamo abituati a lavorare. Il dato diventa un prodotto che genera servizi. Ma una volta che apriamo i sistemi informativi pubblici il tema della qualità dei dati diventa fondamentale. Non puoi dare dati approssimativi, questi devono essere standardizzati, essere di elevata qualità. E poi bisogna aprirli al pubblico in modalità machine-readable, per essere leggibili dalle macchine, che li elaborino in modo tale che ne nascano servizi. Su questo dobbiamo preparare l’industria nazionale e al suo fianco le start up. Saper leggere questi dati, immagazzinarli, gestirli e trasformarli in servizi significa generare valore. Che puoi far pagare a chi usa i servizi. E creare così Pil e nuova occupazione. Insomma, open data è un tema non solo di trasparenza dell’informazione – rendere pubblici i bilanci e le spese dello Stato, per esempio, o i dati elettorali – ma anche un tema di sviluppo economico.

E che sta facendo l’Agenzia a questo scopo?

Abbiamo già predisposto “l’Agenda nazionale della valorizzazione del patrimonio informativo pubblico” e l’abbiamo mandata alla Presidenza del Consiglio. È un documento di una decina di pagine dove identifico i principi di base. Ora siamo preparando le linee guida nazionali sugli open data che contiamo di pubblicare entro il mese di luglio. Il documento tratterà i modelli di riferimento, gli standard tecnici per la produzione di open data, l’utilizzo di ontologie, nonché alcune indicazioni per supportare le Pubblica amministrazione nell’attuazione delle previsioni normative in materia.

Già, come?

Una volta individuate le categorie di dati che stanno in capo alle singole amministrazioni, dobbiamo dare loro regole per disporle in un certo modo e per gestirle in base a standard. Le PA devono garantire che questi dati siano accessibili all’esterno, da macchine, dal cittadino, dalle aziende. Stiamo anche stabilendo politiche di sicurezza da mettere in campo. I dati, una volta pubblicati, non solo devono essere corretti, ma anche non manipolabili. Nessuno che non sia autorizzato deve entrarci per modificarli. Devono essere protetti e sicuri, quindi. Molte PA pensano di aver già fatto tutto pubblicando le proprie basi dati, ma non è così. Bisogna fare ancora una politica degli open data. Tieni conto poi che questo si incastra in un quadro più ampio di Agenda digitale. Ad esempio, per le smart cities l’utilizzo di sensori, che cattureranno dati, i quali diventano informazioni, una volta che saranno definiti descrittori e significati. Così potranno nascere ad esempio servizi che dicono in tempo reale se c’è una congestione, se il bus è in ritardo, quale conviene prendere per andare in un certo luogo turistico….

Quali sono i dati più importanti?

Sono potenzialmente tutti importanti. L’Agenda nazionale individua di anno in anno quelli che devono essere maggiormente valorizzati, ti posso inoltre dire quelli che a livello di G8 ci stanno chiedendo. Ci sono dati che chiamano “core”, altri “ad alto valore” e infine quelli “non classificati”. In quelli “core” ci sono i dati elettorali, i dati governativi, tutti quelli dell’istituto nazionale di statistica, i budget dei prossimi cinque anni del bilancio pubblico, i dati delle imprese. Tutta la spesa pubblica, compresi gli stipendi. I costi suddivisi per categoria del governo centrale e regionale. Tutti i contratti pubblici. I codici di avviamento postale organizzati su base georeferenziata. Le tabelle dei trasporti pubblici. Le prescrizioni mediche. Tutti i dati del meteo aggiornati ora per ora. È una sfida notevole, per l’Italia.

E poi tocca alla valorizzazione dei dati.

Sì, non basta definire l’Agenda, dobbiamo preparare il sistema industriale. Alcune aziende vanno specializzate per la gestione, la lettura e la trasformazione di questi dati in servizi. Sto lavorando a un piano di formazione nazionale di digitalizzazione che coinvolga tutte le scuole della pubblica amministrazione. Dobbiamo formare i dirigenti e i quadri della PA. Lo stesso dobbiamo fare con le aziende del settore, lavorando assieme con i fornitori di tecnologia, mettendo in piedi corsi di formazioni specialistici o master dedicati. Con il Miur sto coinvolgendo il sistema scolastico e universitario. Il terzo tema (il primo è l’organizzazione dei dati, il secondo è preparare il sistema industriale, ndr) infatti è quello delle competenze. Per fare queste cose hai bisogno di gente preparata. Dobbiamo creare nuovi ruoli e professioni. Ce ne sono una ventina, secondo gli americani: content curator, content strategist, data author, data scientist, data analyst, digital media integration manager, director of intrusion prevention eccetera. Scuola e professionisti del settore ci devono aiutare a sviluppare queste nuove competenze. L’ultimo soggetto da formare è il cittadino, che deve saper utilizzare i dati. Dobbiamo fare un piano di educazione all’e-gov. Sto parlando con Rai per dedicare un canale alla formazione per questi servizi. Abbiamo bacini di dati unici al mondo, penso ad esempio a quelli relativi al patrimonio artistico e culturale, che dobbiamo sfruttare.

Quali sono le tempistiche per tutto questo?

Entro il 2013 devo definire tutto l’impianto regolatorio-tecnico per l’apertura delle banche dati pubbliche. Dobbiamo coinvolgere il Garante della Privacy per gli aspetti di competenza. Non abbiamo più tempo, a parte gli impegni definiti dalle norme nazionali, abbiamo firmato un accordo al G8 che impone tempi precisi. La nostra sfida andrà a regime tra fine 2013 e 2015. Entro l’anno farò anche il piano di formazione di nazionale. Il mondo anglosassone ha già sviluppato questi modelli. Il tutto favorisce l’industria di quei Paesi, che è già pronta, mentre la nostra deve maturare. Corriamo il rischio che siano le aziende straniere a usare i nostri dati, a sviluppare servizi che poi ci rivendono. Sarebbe un problema non avere un’industria nazionale pronta a sfruttare questo filone d’oro. Gli Usa si aspettano +3,4% di Pil in più da questi servizi. Io credo che se mettiamo a lavorare 100 mila persone su queste tematiche, in Italia, qualche punto di Pil lo recuperiamo.

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