LO STUDIO

Tim Brasil, Asati: “Può valere più di 15 miliardi”

Secondo uno studio che il Corriere delle Comunicazioni può anticipare, il valore dell’azienda si aggira sui 15 miliardi di euro senza considerare il vantaggio che i tre operatori avrebbero eliminando un concorrente. Con una vendita a 15 miliardi il rapporto Debito/Ebitda potrebbe non migliorare. Dunque azienda strategica per il futuro di Telecom Italia, con flussi e ebitda fondamentali

Pubblicato il 03 Gen 2014

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TIM Brasil può valere più di 15 miliardi. Assistendo agli ultimissimi sviluppi della vicenda Telecom avrei la fantasia di scrivere la seconda parte del libro Goodbye Telecom per affrontare le peripezie dell’ultim’ora. Il libro è da intendersi infatti come una sorta di interminabile working progress che racconta le vicende dell’ex campione telefonico. La gestione Telco rischia di passare alla storia come la peggiore di sempre. Alla luce di quanto sta accadendo sarebbe opportuno anche riponderare i giudizi critici sulle gestioni Colaninno e Tronchetti rivalutando il loro operato in campo internazionale.
Fu infatti con Colaninno che fu potenziato l’impero delle telecomunicazioni che nel momento di massimo splendore contava addirittura una trentina di partecipate. Nei successivi anni dell’era Tronchetti ci fu un consolidamento della posizione in sud America con risultati notevoli poi confermati dal lavoro di Luca Luciani.

E’ proprio in Brasile che si sta combattendo la battaglia finale per la sopravvivenza di Telecom. I ricavi sono passati dal 2009 al 2012 da circa 5 a circa 7,4 miliardi (il cambio era più favorevole), mentre negli ultimi anni l’Ebitda è passato da 1,2 a 1,6 miliardi (stima 2013) assicurando nel futuro la liquidità necessaria per effettuare nuovi investimenti. Si prevede nei prossimi anni un ebitda di circa 2 miliardi di euro. Ma il sogno brasiliano rischia di svanire a causa del piano di Telefonica il cui scopo principale era fin dall’inizio quello di espandersi in Sud America. La vendita di TIM Brasil ad un prezzo non congruo rischierebbe di compromettere l’azienda pregiudicando i flussi di cassa futuri peggiorando il rapporto Debito/Ebitda. L’attuale valore di borsa di TIM Brasil, sui 9 miliardi, non rispecchia il reale potenziale dell’azienda i cui flussi futuri attualizzati dovrebbero aggirarsi intorno ai 15 miliardi senza considerare il premio per l’eliminazione di un concorrente strategico che ridurrebbe da quattro a tre il numero degli operatori. Questi sono anche i valori di borsa del concorrente Vivo che con una quotazione di circa 15 miliardi ha qualche cliente in più di TIM Brasil; e non si capisce dunque perché la differenza di valore tra i due operatori sia così distante. La differenza potrebbe essere anche influenzata dai report degli analisti che penalizzano la società italiana. Di recente mi è parso di ascoltare voci di alcune valutazioni di TIM Brasil intorno ai 10-11 miliardi, cifra che è uguale agli utili netti attuali (circa 500 milioni) in un arco temporale di 20 anni. Si capisce immediatamente che tali valutazioni ignorano il fattore crescita che al contrario è il fattore dominante in una situazione del genere. Il Brasile, anche se nell’ultimo periodo ha registrato una flessione, negli ultimi anni ha vissuto un boom economico che secondo gli esperti continuerà per molti anni. A ciò si aggiungono le possibili sinergie industriali e il processo di ottimizzazione dei costi che dovrebbe migliorare, a medio e lungo termine, tutti gli indicatori finanziari. Discorso a parte per il mercato dati e VAS, ancora totalmente assente in Brasile, e che aldilà della crescita del reddito pro capite e della spesa in servizi di base potrebbe far lievitare l’arpu.

Già a novembre Bernstein Research prevedeva un’offerta su Tim Brasil a inizio 2014 con la successiva divisione della società e la vendita ai tre operatori del Paese, Oi, America Movil e Vivo. Ma concludere l’operazione sotto pressioni dell’antitrust sottrae potere negoziale al venditore e quindi la possibilità di ottenere un buon prezzo per gli acquirenti secondo una strategia pianificata. Venduta l’argentina e sottoscritto il discusso convertendo, il successivo passaggio sarebbe proprio la vendita di Tim Brasil e possibili dismissioni immobiliari. Nel passato quest’ultime sono state tutte indiscutibilmente svantaggiose per l’azienda. C’e’ da dire a riguardo che più della metà delle dismissioni sono avvenute sotto la gestione Colaninno dal 1999 al 2001 (questo non è stato mai scritto dai giornali ed è bene ribadirlo) con numeri durissimi: 783 euro al m2 di media ed un tasso di retrolocazione del 9%. Alcuni immobili sono stati addirittura rivenduti mesi dopo a Goldman Sachs con plusvalenze del 70% come si evincerebbe dalle presentazioni dell’epoca. Mentre dai bilanci, i tassi di retrolocazione durante la gestione Pirelli sono più bassi (anche se ancora alti) con un rapporto prezzo al m2 più elevato e dunque migliore rispetto alla gestione precedente.

Il Cambio dello Statuto è imminente. Porgerei al lettore la stessa domanda formulata dai piccoli azionisti durante l’assemblea del 20 Dicembre: “Come è possibile che i fondi e tutti gli altri azionisti possano appoggiare un CDA in cui di fatto comanda Telefonica, alla quale potrebbero non interessare le sorti di Telecom Italia ma principalmente quelle del mercato Sud Americano?” Devo per forza di cose arrivare alla conclusione che ci troviamo di fronte a un deleterio meccanismo della finanza mondiale che tende ad ignorare il bene comune. In questa situazione Marco Patuano, valido top manager presente in azienda fin dal 1989, ha più volte ribadito che la partecipazione carioca è strategica. E nonostante il Cade abbia deciso che Telefonica debba cedere una quota nella sua controllata brasiliana Vivo oppure uscire dal capitale di Telecom Italia, la vendita di TIM Brasil non è cosa semplice per via di molti fattori: un ipotetico prezzo di domanda troppo lontano da 15 miliardi, i costi per lo smembramento dell’azienda in tre parti (cosa sulla quale gli addetti ai lavori hanno molti dubbi soprattutto in relazione al criterio di territorialità) e la possibile reazione della politica italiana, fin qui totalmente assente.

Una delle possibilità è che Telefonica rinunci quindi uscendo da Telecom Italia. Poi se TIM Brasil fosse venduta ad un valore congruo e vantaggioso si potrebbe anche accettare il verdetto del mercato. Nel frattempo Il Governo si è concentrato sulla legge dell’Opa e sulla Golden Share. Sicuramente due misure indispensabili, ma che non risolveranno mai la situazione in pieno. Di recente alcune forze politiche stanno valutando l’ipotesi di presentare in parlamento una mozione per il cambiamento dello statuto di Telecom Italia alla luce dell’articolo 43 della costituzione che renderebbe più che giustificato un intervento pubblico di fronte al disastro che stiamo assistendo. I pareri legali di tutti gli avvocati interpellati hanno dato un responso positivo sulla fattibilità giuridica di un tale procedimento. In pratica, l’unica soluzione logica è una “riprivatizzazione corretta di Telecom Italia” con una governance che sia espressione di tutte le forze in campo. Personalmente sono ottimista perché il cambio dello statuto e ancor prima del CDA è comunque imminente, ci vorrà forse tempo ma sarà il punto di partenza per un capitalismo più sano. Qui non si tratta di discutere se il pubblico sia più efficiente del privato, cosa evidente se si analizzano i risultati della Telecom dei boiardi di Stato, e non si tratta neanche di “liberare il capitalismo dalla peggiocrazia di coloro che ne sono al comando” (per utilizzare una espressione cara al Professor Zingales). Ma occorre solamente assicurarsi che un sistema liberale possa fondarsi su regole chiare ed efficienti, tali da assicurare che una azienda di interesse pubblico che fornisca servizi strategici possa essere gestita non in contrasto con gli obiettivi di sviluppo di un Paese democratico e civile.

In Telecom deve comandare chi ha messo i soldi di tasca sua; con un nuovo CDA e un nuovo statuto. Lo dice Fossati e lo continua a ripetere da anni Asati e tutta la miriade di piccoli azionisti polverizzati. Un principio chiaro e anche logico, che si ripete in tutti i manuali e ancor prima nei testi sacri di Economia. Josef Schumpeter, uno dei più grandi economisti del secolo scorso, aveva presagito la fine del capitalismo per opera di due fattori: la scomparsa dell’imprenditore innovatore, con la crescente distanza tra managment e proprietà, e la perdita dei valori etici. Sarebbe proprio l’assenza di questa figura economica, divorata dalle multinazionali, a sancire il declino delle aziende e successivamente del sistema. A quel punto, secondo l’economista austriaco, ci sarebbe il ritorno dello Stato con una nuova classe dirigente composta da intellettuali e manager formatisi secondo principi etici, simili per qualche verso a persone del taglio di Reiss Romoli, Pascale e Gamberale.

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