L'ANALISI

Scorporo rete Tim, vale davvero la pena di rischiare?

Non sfruttare la concorrenza fra le tecnologie e fra gli attori di mercato, lungi dall’accelerare lo sviluppo, lo rallenta. Il rischio che il neo-monopolista della rete non stia al passo con i tempi per mancanza di reali incentivi di mercato è alto: la parità di trattamento sarebbe certo assicurata ma sarebbe una scelta al ribasso. L’analisi di Francesco Vatalaro

Pubblicato il 16 Ago 2017

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Nell’ambito di un imprevisto scontro protezionistico nel settore della cantieristica portuale generato dal presidente francese Macron, sembra che in Italia si riaccenda l’interesse per lo scorporo della rete di Tim, in mano ai francesi di Vivendi.

Come un fiume carsico, lo scorporo della rete compare e scompare nelle discussioni politiche di chi è nostalgico dei “bei tempi andati” pre-liberalizzazione. Infatti, è stato oggetto di intensa attenzione molte volte nel decennio trascorso e, fra gli altri, il presidente di Open Fiber, Franco Bassanini, ne rilancia la proposta in una recente intervista. Gli risponde Franco Debenedetti con argomenti di libero mercato che però potrebbero lasciare indifferente chi ritenga che la rete di Tim, in quanto asset strategico del Paese, dovrebbe essere soggetta a qualche forma di controllo, diretto o indiretto, da parte dello Stato italiano.

Comunque la si pensi, è bene chiarire che lo scorporo potrebbe essere una scelta molto rischiosa per il nostro sistema delle Tlc e per il Paese: meglio esserne consapevoli, prima di schierarsi “ideologicamente”. Vediamo perché.

Un argomento addotto a sostegno della tesi sarebbe che “nelle utilities è buona regola separare la proprietà delle reti da quelle dei servizi” (Bassanini): a riprova si fa spesso il confronto con le reti elettriche e con quelle del gas. Argomento affascinante che non tiene conto che il sistema di rimedi regolatori delle Tlc non ha eguale negli altri settori infrastrutturali (Trasporti, Gas, Energia, Acqua). Per quanto imperfetta la regolamentazione nelle Tlc è assai più sofisticata di quella delle cosiddette utilities, anche scorporate, i cui alti costi per l’erogazione del servizio al cliente finale, accompagnati da scarsa trasparenza, imporrebbero forse riflessioni di altro segno. A differenza di queste ultime, poi, le Tlc corrono veloci con un’innovazione continua che, per la Legge di Moore e tutte le “leggi tecnologiche” da essa innescate, spiazza ogni spirito pianificatore incapace di inseguire le dirompenze che piovono su pc e smartphone. Basterebbe esaminare come si riduce, anno dopo anno, il prezzo medio dei servizi di telecomunicazioni mentre l’indice generale dei prezzi al consumo cambia poco e, al contrario, crescono i prezzi dei servizi delle utilities, anche di quelle scorporate.

Se lo scorporo della rete di Tlc non si è attuato in Italia per le numerose difficoltà finanziarie associate (il debito di Tim) e le incertezze di scenario (difficoltà di valutazione economica dell’infrastruttura da scorporare), oggi è definitivamente chiarito che nelle reti moderne esiste un problema di ampiezza del “perimetro dello scorporo” che non dovrebbe limitarsi, come si pensava un tempo, agli impianti trasmissivi dell’accesso fisso. La necessità di intervenire non solo allargando la “banda” ma anche riducendo il “ritardo” dei segnali ultra-broadband potrebbe imporre – per complesse ragioni tecniche – di scorporare anche le sezioni di rete più a monte, quelle del “trasporto” fino al confine con la Big Internet. Poi, la necessità di crescente integrazione fisso-mobile suggerirebbe di estendere ancora il perimetro alle reti 2G/3G/4G.

Cosa resterebbe, dunque, industrialmente fuori da questo perimetro di impianti scorporati nella nuova impresa? Ben poco e al limite l’operatore, ormai “ex dominante”, finirebbe per possedere solo una divisione commerciale di rivendita al dettaglio, cioè assai meno di molti dei più agguerriti competitor di Tim di oggi. Così facendo, però, i costi per l’acquisto della rete scorporata sarebbero ben maggiori dei costi che si stimano per la rete di accesso. Si noti, a questo proposito, che la stessa Open Fiber che inizialmente riteneva di concentrarsi sulla sola rete di accesso ottica, oggi include nel suo progetto di rete anche il trasporto dell’informazione.

Se però si volesse limitare l’ampiezza dell’investimento sulla rete da scorporare separando la rete di accesso da quella di trasporto (da lasciare di proprietà di Tim), questo potrebbe implicare tempi anche molto lunghi per la riconfigurazione dei complessi sistemi IT che, nel Regno Unito, sono stati stimati in circa cinque anni. Dunque lo scorporo si rivelerebbe un’operazione di lungo periodo e, come tale, complessa e rischiosa.

Altro argomento addotto dai sostenitori dello scorporo è che la nuova impresa – che dovrebbe operare in solo regime wholesale – potrebbe concentrarsi sullo sviluppo della rete ottica Ftth. L’argomento non convince perché ad un’intensità molto maggiore degli investimenti in condizioni di domanda bassa o incerta corrisponderebbero flussi di cassa all’ingrosso (oggi regolamentati e sperabilmente, a più forte ragione, lo sarebbero dopo lo scorporo) inadeguati a fornire da soli i ritorni necessari perché “orientati ai costi”.

La società della rete, infatti, non potrebbe contare sui rilevanti ricavi a livello retail, il cui mercato non ha prezzi fissati perché ormai da tempo giudicato competitivo in Italia. D’altra parte l’orientamento al costo nei mercati all’ingrosso è una regola europea: disattenderla non sarebbe facile e, comunque, scaricherebbe in bolletta sul cliente finale parte del costo dell’investimento, nonché delle inevitabili inefficienze gestionali dovute quanto meno all’inesperienza del neonato monopolista.

Mancando la concorrenza sulle infrastrutture (la rete scorporata è unica per definizione), secondo i sostenitori dello scorporo si potrebbe fare più rapidamente il salto al Ftth, senza ricorrere a soluzioni intermedie come la fibra all’armadietto (FTTCab). Un argomento, questo, assai dibattuto lungo l’arco di un intero decennio e che l’esperienza internazionale boccia senza appello. L’approccio graduale, attraverso la retroazione virtuosa di domanda di servizi e offerta di infrastrutture, infatti, ha sbaragliato dovunque l’impostazione Ftth. L’ultimo paese ad avere annunciato, poche settimane fa, l’abbandono dei piani di un salto diretto al Ftth è proprio la Francia del presidente Macron, che ha aperto a tutte le tecnologie di accesso. Ormai nessuno è rimasto in Europa, salvo l’Italia che, addirittura, ipotizza di realizzare direttamente l’Ftth persino nelle aree a fallimento di mercato: ma anche da noi l’esperienza in campo ha mostrato che l’avvio dello sviluppo della nuova rete ultra-broadband si è avuto solo quando, nel 2012, Fastweb “ha sfidato” Telecom iniziando a collocare propri armadietti accanto a quelli dell’operatore storico. Sono i numeri della crescita delle linee a 30 Mbit/s e oltre a testimoniarlo senza equivoci.

Dunque, la pianificazione centrale della rete vista come sistema ottimale perché sarebbe sia efficiente che paritario è un’errata semplificazione. Non sfruttare la concorrenza fra le tecnologie e fra gli attori di mercato, lungi dall’accelerare lo sviluppo, lo rallenta. Il rischio che il neo-monopolista della rete non stia al passo con i tempi per mancanza di reali incentivi di mercato è alto: la parità di trattamento sarebbe certo assicurata ma sarebbe, purtroppo, una scelta al ribasso. Vale davvero la pena di rischiare?

In fondo, la risposta è già scritta nell’esperienza in corso in un Paese spesso citato a sproposito: l’Australia. Nel 2009 lo Stato australiano scorpora il rame dell’incumbent Telstra a caro prezzo per dismetterlo (ma poi non lo farà!) e, al contempo, fonda l’operatore wholesale-only Nbn (National Broadband Network) con la mission della tecnologia Ftth per tutti, o quasi. Oggi tutti sono scontenti del servizio erogato da Nbn, dagli Internet service provider ai clienti finali. A sette anni dalla vendita, l’ex-incumbent Telstra guadagna ancora dallo scorporo attraverso ingenti contratti di servizio con Nbn per la gestione e la manutenzione della rete. Nel presentare le nuove previsioni di spesa al rialzo, nell’agosto del 2015 l’allora Ministro delle Comunicazioni e attuale Primo Ministro Liberale, Malcom Turnbull, nel criticare la scelta dello scorporo fatta all’epoca dai Laburisti, scriveva: “Se l’Australia avesse perseguito un approccio più convenzionale come le politiche perseguite in Paesi simili – dove le imprese private hanno svolto il lavoro e i contribuenti hanno fornito sovvenzioni per sostenere il lancio in aree non commerciali come quelle disabitate – l’aggiornamento della rete a banda larga sarebbe probabilmente già completato e sicuramente sarebbe costato molto di meno.”

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