l’editoriale

Digital Networks Act, la grande sfida europea tra ambizione politica e rischi di squilibrio



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Il nuovo regolamento europeo sulle reti promette di armonizzare il mercato delle telecomunicazioni, semplificare la governance dello spettro e favorire gli investimenti in 5G e 6G. Ma i piccoli operatori lanciano l’allarme: così si rischia un’oligarchia digitale, la fine della concorrenza e un’Europa connessa solo a metà

Pubblicato il 23 giu 2025

Federica Meta

Direttrice



italia, europa

L’Europa si prepara a scrivere un nuovo capitolo nella lunga storia della regolazione delle telecomunicazioni. Con il lancio della consultazione pubblica sul Digital Networks Act (Dna), la Commissione europea ha aperto il confronto su una proposta destinata a cambiare profondamente le regole del gioco per le comunicazioni elettroniche. Non una semplice revisione normativa, ma un salto di paradigma: da un sistema frammentato e direttivo a un modello integrato, armonizzato e regolato attraverso un regolamento direttamente applicabile in tutti gli Stati membri, al pari del Gdpr o dell’AI Act

La scadenza è fissata: entro il 10 dicembre 2025 è attesa la pubblicazione del pacchetto digitale che comprenderà il Dna, con ogni probabilità, anche la revisione della Raccomandazione sui mercati rilevanti. Intanto, gli stakeholder hanno tempo fino a luglio per far sentire la propria voce. Un’occasione cruciale per influenzare le scelte che definiranno il futuro dell’infrastruttura digitale europea

Dalla frammentazione all’uniformità: le ambizioni del regolatore

L’attuale quadro regolatorio, basato sul Codice Europeo delle Comunicazioni Elettroniche del 2018, ha sì introdotto principi comuni, ma non è riuscito a superare le disomogeneità nazionali. Le divergenze nei regimi di autorizzazione, nelle pratiche di enforcement e nella gestione dello spettro radio continuano a ostacolare l’integrazione del mercato. Gli investimenti in fibra ottica e 5G sono lenti e diseguali; l’allocazione delle frequenze, invece di essere uno strumento di coesione, resta prerogativa nazionale. 

Il Dna nasce per rimediare a queste criticità, semplificando gli oneri amministrativi fino al 50%, armonizzando l’accesso alle infrastrutture, consolidando in un unico corpo normativo tutte le attuali regolazioni – dal regolamento Berec alla Open Internet Regulation – e rafforzando il coordinamento sulle licenze dello spettro, anche in vista del 6G

Ma più ancora, il Dna propone una visione a lungo termine: reti resilienti, sicure e capaci di supportare tecnologie emergenti come l’intelligenza artificiale, il quantum computing e le applicazioni evolute dell’Internet of Things.

Nuovi modelli regolatori e interrogativi aperti

Uno dei temi più delicati riguarda la transizione da un modello di regolazione ex ante a uno ex post. La proposta è di mantenere gli interventi ex ante solo dove esistano “fallimenti di mercato” documentati, lasciando spazio a un maggior utilizzo del diritto della concorrenza per disciplinare le dinamiche di settore. Le autorità nazionali manterrebbero il potere di proporre interventi, ma questi sarebbero soggetti alla supervisione della Commissione e di Berec, che avrebbe poteri di veto

Il tema è tutt’altro che tecnico. Le associazioni degli operatori alternativi, come Ecta temono che un approccio troppo liberista possa indebolire la capacità di regolare i grandi incumbent. Al contrario, le big telco europee, rappresentate ad esempio da Gsma e Connect Europe, vedono nella semplificazione e nell’uniformità una chiave per stimolare gli investimenti. 

La Raccomandazione sui mercati rilevanti: il barometro della concorrenza

Non meno importante è il processo parallelo di revisione della Raccomandazione sui mercati rilevanti, strumento fondamentale per definire in quali ambiti sia ancora giustificata la regolazione ex ante. Da 18 mercati identificati nel 2003, si è scesi a 2 nel 2020. Ulteriori riduzioni potrebbero compromettere l’equilibrio competitivo, riducendo gli spazi per i nuovi entranti di accedere a infrastrutture esistenti a condizioni eque.

In un momento in cui la competizione infrastrutturale è in fase di assestamento, e la convergenza tra telco e piattaforme digitali è sempre più marcata, è essenziale non abbassare la guardia su strumenti che garantiscono un pluralismo autentico.

Fair share, sostenibilità e neutralità della rete: la posta in gioco è altissima

Il Dna affronta anche temi di impatto politico e industriale rilevante, come il fair share: la proposta che gli Ott contribuiscano ai costi della rete. Un tema che tocca nervi scoperti, tra esigenze di sostenibilità economica da parte degli operatori e preoccupazioni di violazione della net neutrality da parte delle piattaforme e dei difensori dei diritti digitali. 

Allo stesso tempo, la Commissione punta con decisione sulla sostenibilità ambientale: reporting obbligatorio, eco-labeling per gli apparati, e un piano di phase-out del rame a livello Ue, con l’obiettivo dell’80% di switch-off entro il 2028. 

Sono misure ambiziose e necessarie, ma che impongono riflessioni anche sulle compensazioni per gli operatori, specialmente in relazione ai costi aggiuntivi che potrebbero derivare dall’esclusione di vendor extraeuropei come Huawei.

La protesta dei piccoli operatori: “Così salta il pluralismo delle reti”

Ma non tutti applaudono. In Italia, l’Associazione Italiana Internet Provider (Aiip) ha lanciato un duro allarme, definendo il Dna “il più grave attacco mai portato all’Internet libera e pluralistica in Europa”. Il cuore della contestazione risiede nel fatto che il Dna sarà un regolamento e non una direttiva: ciò significa applicazione diretta in tutti gli Stati membri, senza margini di adattamento alle specificità locali. 

Secondo l’Aiip, questo assetto favorisce inevitabilmente i grandi operatori paneuropei, capaci di sfruttare economie di scala, risorse finanziarie e presidi normativi consolidati per espandersi nei mercati nazionali con offerte omogenee. A farne le spese sarebbero i piccoli provider locali, spesso gli unici realmente radicati sul territorio e in grado di rispondere con flessibilità, rapidità e attenzione alle esigenze infrastrutturali delle comunità locali.

I dati Agcom confermano che proprio questi operatori, spesso nati dal basso, sono gli unici a mostrare trend di crescita in un mercato dominato da guerre di prezzo e margini sottilissimi. Eppure rischiano di essere marginalizzati da un impianto regolatorio pensato più per l’efficienza continentale che per la pluralità dell’ecosistema.

Dietro parole apparentemente neutre come semplificazione, efficienza, razionalizzazione – si legge nel sito della campagna ‘stopdna.eu’ – si cela la volontà di costruire un oligopolio europeo, con pochi grandi operatori che controlleranno i flussi di dati dell’intero continente”. Un’accusa forte, che solleva interrogativi profondi sulla tenuta del pluralismo infrastrutturale, condizione necessaria – e non accessoria – per garantire concorrenza, innovazione e inclusione digitale.

Dna: occasione di leadership o rischio di squilibrio?

Il Digital Networks Act rappresenta forse la riforma più ambiziosa del settore Tlc da trent’anni a questa parte. Il potenziale di posizionare l’Europa come leader globale nella connettività è reale, ma richiede una grande attenzione alla governance.

Un’armonizzazione troppo spinta, senza tenere conto delle specificità locali, rischia di svantaggiare gli operatori più piccoli, che spesso sono i più attivi nello sviluppo delle reti nei territori. Servono regole certe, sì, ma anche flessibilità e gradualità, per non sacrificare sull’altare dell’efficienza la pluralità del mercato.

L’Europa digitale del futuro non si costruisce con una visione centralista, ma con una regia condivisa tra istituzioni, imprese e territori, capace di coniugare competitività, sicurezza, inclusione e innovazione.

Il Dna può essere il pilastro di questa visione. Soprattutto se verrà costruito ascoltando tutte le voci in campo.

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