l’editoriale

Global minimum tax, vittoria di Trump. Ma il multilateralismo fiscale scricchiola



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ll compromesso raggiunto al G7, che esenta le multinazionali Usa dalla tassazione globale, segna una resa politica all’unilateralismo fiscale di Washington e indebolisce il fronte multilaterale costruito nel 2021. L’Europa? Costretta a difendersi, più che a guidare

Pubblicato il 29 giu 2025

Federica Meta

Direttrice



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La globalizzazione fiscale ha subito un duro colpo. E stavolta il colpo lo assesta il G7, il gruppo delle sette maggiori economie mondiali, con un accordo che sa di resa nei confronti di Washington: l’esenzione per le multinazionali Usa dalla Global Minimu Tax definita in sede Ocse. Una vittoria piena per Donald Trump e per le Big Tech americane, che vedono allontanarsi la prospettiva di dover pagare più tasse all’estero. Un accordo che rischia però di compromettere – o almeno riscrivere radicalmente – la portata storica dell’accordo del 2021 sulla tassa minima globale.

La nuova intesa, presentata come un passo avanti verso la “stabilizzazione del sistema fiscale internazionale”, lascia tuttavia aperti più interrogativi che certezze. In una nota ufficiale della presidenza canadese del G7 si parla di “dialogo costruttivo” per salvaguardare la “sovranità fiscale di tutti i Paesi”. Ma è proprio questa retorica della sovranità – tanto cara all’amministrazione Trump – che rischia di scardinare i progressi raggiunti finora nella lotta all’elusione fiscale da parte delle multinazionali digitali.

La trattativa e l’ombra del ‘One Big Beautiful Bill Act’

L’accordo sarà discusso nelle prossime settimane in sede Ocse, dove quattro anni fa era stato siglato uno dei più ambiziosi trattati di cooperazione fiscale internazionale: la global minimum tax, pensata per porre fine al profit shifting e alle pratiche elusive delle multinazionali. L’obiettivo era semplice ma rivoluzionario: impedire che i giganti del digitale potessero scegliere arbitrariamente la giurisdizione fiscale più vantaggiosa per contabilizzare i propri profitti.

Per Mathias Cormann, segretario generale dell’Ocse, la decisione del G7 rappresenta comunque “un’importante pietra miliare nella cooperazione fiscale internazionale”. Ma Manal Corwin, a capo della divisione fiscale dell’Ocse, è più cauta: “La dichiarazione del G7 non è vincolante”, ha sottolineato, ricordando che ogni proposta dovrà essere approvata da tutti i 147 Paesi membri. “Il G7 da solo non può prendere questa decisione”.

Parole pesanti, che fotografano la realtà: l’intesa raggiunta al vertice non è che l’inizio di un braccio di ferro tra visioni fiscali divergenti. Eppure, l’amministrazione Trump può già cantar vittoria. Il segretario al Tesoro Scott Bessent ha annunciato l’eliminazione della famigerata ‘revenge tax’, l’emendamento alla legge di spesa che avrebbe consentito agli Stati Uniti di imporre ritorsioni fiscali contro quei Paesi che avessero tassato le imprese americane in modo considerato discriminatorio.

Il compromesso italiano: Giorgetti e la realpolitik fiscale

Tra i sostenitori dell’accordo, l’Italia. Il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha definito l’intesa un “onorevole compromesso”. E ha aggiunto: “Protegge le nostre imprese dalle ritorsioni automatiche degli Stati Uniti”. La sua preoccupazione è comprensibile: la ‘revenge tax’ minacciava non solo le grandi multinazionali, ma anche le aziende europee con interessi negli Usa.

Giorgetti parla di un’intesa trovata con l’amministrazione americana “che protegge le nostre imprese dalle ritorsioni automatiche originariamente previste dalla clausola 899 dell’Obba all’esame del Senato Usa”. Una dichiarazione che tradisce il peso geopolitico di Washington anche sui tavoli multilaterali: non si tratta più solo di accordi fiscali, ma di equilibri politici da salvaguardare.

Il doppio binario proposto dagli Stati Uniti

La presidenza canadese ha ricordato che nei mesi scorsi Bessent aveva espresso “la preoccupazione degli Stati Uniti riguardo le regole di secondo pilastro”, ossia quelle che colpiscono l’elusione fiscale e il profit shifting. Gli Usa avevano quindi proposto un sistema alternativo: esentare i gruppi a controllo americano dalla regola di inclusione degli utili e da quella sui profitti non tassati, in virtù delle regole minime già in vigore negli Stati Uniti.

Una proposta che ha spaccato il fronte Ocse, ma che alla fine ha trovato sponde anche tra gli alleati. Dopo l’annuncio americano di voler rimuovere dal ‘One Big Beautiful Bill Act’ di Trump le disposizioni che autorizzavano una “tassazione di rappresaglia”, l’intesa del G7 ha preso forma. E oggi si parla apertamente di un “sistema parallelo” che possa “mantenere intatti importanti passi avanti” nella lotta all’erosione della base imponibile e al profit shifting, offrendo “maggiore stabilità e certezza al sistema di tassazione internazionale da qui in avanti”.

Cento miliardi di motivi per festeggiare alla Casa Bianca

A conti fatti, la Casa Bianca ha ottenuto ciò che voleva. Secondo le stime, le aziende americane risparmieranno 100 miliardi di dollari in tasse all’estero. Un bottino che fa gola a qualunque amministrazione, ma che in mano a Trump si traduce in un’arma elettorale. Proprio ieri, infatti, il presidente ha rilanciato la sfida all’Unione Europea dopo aver interrotto i negoziati con il Canada: “Con la digital tax l’Ue non ne uscirà bene, come il Canada”, ha tuonato dallo Studio Ovale, accusando Ottawa di aver agito “in modo stupido”.

Un linguaggio poco diplomatico, ma perfettamente in linea con il ‘Trump style’. E se c’è una lezione che l’Europa dovrebbe imparare da questo episodio è che il terreno della cooperazione fiscale globale è diventato il nuovo fronte del confronto geopolitico. Con le Big Tech – ancora una volta – al centro del gioco.

Verso un multilateralismo a geometria variabile?

L’accordo del G7 è, in apparenza, una vittoria della diplomazia. Ma è anche la prova che il multilateralismo fiscale rischia di diventare una costruzione a geometria variabile, dove le regole si negoziano a colpi di potere, e non più nei consessi multilaterali che le avevano generate. Il pericolo è che l’intesa segni un pericoloso precedente: se ogni grande economia può riscrivere a proprio vantaggio i termini della cooperazione, il sistema fiscale globale rischia di disgregarsi.

Il compromesso è stato definito “onorevole” da Giorgetti. Ma quanto costa, in termini di sovranità collettiva, cedere alle pressioni di Washington per scongiurare ritorsioni unilaterali? E soprattutto: chi scriverà, da oggi in avanti, le regole della fiscalità globale?


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