Le Content Delivery Network (Cdn) finiscono al centro di un contenzioso tra big tech e regolatori. Meta ha presentato ricorso al Tar contro la decisione di Agcom di equiparare le Cdn alle reti di telecomunicazione, imponendo obblighi di autorizzazione e nuovi vincoli operativi. La misura è contenuta nella delibera, approvata durante l’estate, che interpreta il Codice delle comunicazioni elettroniche, estendendo il regime di autorizzazione generale alle infrastrutture di distribuzione dei contenuti. Secondo Meta, la norma “viola le direttive europee e italiane e rischia di compromettere innovazione e investimenti nell’ecosistema digitale”. Sul fronte opposto, Agcom difende la scelta come necessaria per garantire trasparenza e parità di condizioni. Il ricorso di Meta si aggiunge a quelli già presentati da Netflix, Amazon Web Services e Cloudflare, che contestano la stessa impostazione e parlano di “fair share mascherato” e di un precedente pericoloso per il mercato unico europeo.
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Content Delivery Network e il nodo regolatorio
La decisione di Agcom nasce dall’esigenza di garantire trasparenza sulle infrastrutture che veicolano volumi crescenti di traffico. Le Cdn ospitano cache, server e nodi di distribuzione all’interno delle reti degli operatori, diventando cruciali per la qualità dei servizi digitali. L’Autorità punta a vigilare su un settore strategico, assicurando condizioni eque di interconnessione. Il testo segue una consultazione pubblica e precedenti interventi, come il caso Dazn, quando Agcom intervenne per tutelare gli utenti dopo i disservizi durante le partite di Serie A.
Le contestazioni delle piattaforme
Meta, Netflix, Aws e Cloudflare contestano l’equiparazione delle Content Delivery Network agli operatori di telecomunicazioni. Secondo le piattaforme, la misura introduce oneri non previsti dalla normativa europea e rappresenta un “fair share mascherato”, ossia un tentativo di introdurre costi o dispute obbligatorie sul modello della network usage fee respinta a livello comunitario. “Se applicata, la decisione spingerebbe i provider ad appoggiarsi a infrastrutture estere, con peggiori prestazioni e un’esperienza inferiore per gli utenti italiani”, avverte Meta. Il timore comune è che il nuovo regime renda più complessa e costosa la presenza di server in Italia, con impatti sulla qualità dello streaming e sui tempi di caricamento.
Un precedente pericoloso?
Le big tech sottolineano la vaghezza del testo, che non definisce con precisione cosa sia una Content Delivery Network, chi ne sia il fornitore e quali attività siano comprese. Nessun altro regolatore europeo tratta le Cdn come reti di telecomunicazioni, mentre Bruxelles lavora al Digital Networks Act. “L’Italia rischia di isolarsi”, avvertono le piattaforme, che temono una frammentazione normativa nel mercato unico digitale. Il varo del Digital Networks Act, inizialmente atteso entro fine 2025, potrebbe slittare al 2026, lasciando spazio a iniziative nazionali non coordinate.
Le posizioni degli operatori telco
Alcuni operatori accolgono positivamente la decisione di Agcom. La crescita del traffico generato dalle big tech, sostengono, rende necessarie regole più chiare e un quadro di maggiore equilibrio nelle interconnessioni. Il passo successivo sarà un regolamento del ministero delle Imprese e del Made in Italy, che dovrà definire con precisione cosa sia una Content Delivery Network e quali regole si applichino. A seconda dell’approccio adottato – più leggero o più incisivo – si capirà quale direzione prenderà il settore in Italia.
Uno scontro che segna il futuro delle reti
Il contenzioso tra Agcom e le piattaforme si inserisce in un momento delicato per la politica industriale europea delle reti. La questione delle Content Delivery Network non riguarda solo l’Italia: tocca il tema più ampio della sostenibilità del traffico e del rapporto tra telco e big tech. Da un lato, le piattaforme rivendicano investimenti autonomi per alleggerire il carico sulle reti; dall’altro, gli operatori chiedono regole che garantiscano trasparenza e parità di condizioni. Il ricorso di Meta apre una fase di incertezza che potrebbe influenzare il dibattito europeo sul futuro delle infrastrutture digitali.



































































