Pietro Labriola ha scelto una metafora semplice per raccontare il paradosso delle telecomunicazioni europee: “abbiamo scelto l’uovo e non la gallina”. Cioè l’incasso immediato delle aste per le frequenze, sacrificando però la sostenibilità di lungo periodo degli investimenti sulle reti. Il messaggio, lanciato dal presidente di Asstel e ad di Tim al Forum nazionale delle telecomunicazioni 2025, è un avvertimento al governo italiano e alle istituzioni europee, anche in vista del rinnovo delle frequenze mobili previsto per il 2029: senza un cambio di rotta regolatorio e industriale, la filiera Tlc rischia di non riuscire più a sostenere la digitalizzazione del Paese.
“Stiamo dando via il digitale fuori dall’Europa”, ha detto Labriola, sottolineando come una parte sempre maggiore del valore creato sulle reti europee sia oggi in mano a soggetti extra-Ue, in particolare le grandi piattaforme globali. Un controsenso, ha insistito, se è vero che “il futuro non può che passare attraverso il mondo del digitale” e che le reti di nuova generazione sono la condizione di base per qualsiasi strategia di crescita.
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Il paradosso di un settore “percepito come ricco” ma in crisi strutturale
La fotografia del settore scattata da Asstel parte da un dato: negli ultimi dieci anni i ricavi delle telecomunicazioni in Europa sono diminuiti in modo costante, mentre gli investimenti sono rimasti elevati. Un calo che, nel contesto europeo, è spiegato in gran parte dall’elevato numero di operatori e dalla conseguente corsa al ribasso sui prezzi.
“In Italia le dinamiche negative sono state ancora più marcate: siamo il Paese con i prezzi più bassi in Europa a fronte di consumi analoghi”, ha evidenziato Labriola. Il costo del capitale, intanto, saliva: tra il 2019 e il 2023 è passato dal 7,3 all’8,1 per cento per le Tlc italiane, “quasi azzerando la capacità delle imprese di generare cassa” e producendo “i primi segnali concreti di questa situazione, con un rallentamento degli investimenti privati”.
Il paradosso, ha riassunto il presidente di Asstel, è che “da un lato il settore è percepito come ricco, dall’altro soffre di una crisi strutturale profonda”. Una crisi che non è solo contabile, ma strategica: con margini erosi e costi in aumento, gli operatori rischiano di non poter reggere l’onda lunga degli investimenti richiesti da 5G, fibra, cloud e nuovi servizi digitali.
Prezzi bassi, costi alti: l’equazione che non torna
Il confronto internazionale accentua il senso di squilibrio. “In Italia abbiamo i prezzi più bassi delle Tlc al mondo: in Germania sono tre volte superiori, in Francia il doppio”, ha ricordato Labriola. Allo stesso tempo, il sistema deve fare i conti con “i costi dell’energia tra i più alti in Europa” e con le frequenze 5G pagate “al prezzo più alto d’Europa”.
Per gli operatori, è una morsa: tariffe al ribasso per non perdere quote di mercato e costi fissi che crescono. Labriola non ha nascosto l’irritazione per la diversa sensibilità mostrata, a suo dire, verso altri attori del digitale: “Non ho visto una levata di scudi tutte le volte che Amazon ha alzato i prezzi o il mondo politico scandalizzato”. Sulle Tlc, ha lasciato intendere, sembra valere una sorta di vincolo implicito al “low cost” permanente.
Eppure si tratta di un comparto che, dal 2007 al 2024, ha garantito oltre 135 miliardi di euro di entrate fiscali allo Stato. “È un settore che crea valore e sostiene la collettività”, ha ribadito. Continuare a spremere la filiera, questo il sottotesto, rischia di trasformare una delle infrastrutture chiave del Paese in un anello debole.
5G, l’Italia che paga di più e copre di meno
Il tema delle frequenze 5G è diventato il caso emblematico delle scelte di breve respiro. “Abbiamo fatto pagare circa 6-7 miliardi le frequenze 5G e oggi il nostro Paese ha la copertura più bassa in Europa”, ha denunciato Labriola. Un incasso straordinario per le casse pubbliche, ma al prezzo di un forte indebitamento degli operatori e di una minore capacità di investimento sulle reti.
A pesare è stata anche la scelta del modello d’asta: competitivo e massimizzante sul fronte delle entrate immediate, meno attento agli effetti strutturali sul mercato. “Abbiamo scelto l’uovo e non la gallina”, ha sintetizzato Labriola, sostenendo che quelle risorse avrebbero potuto essere investite nella realizzazione delle reti 5G stand alone, le uniche in grado di abilitare pienamente i servizi di nuova generazione per industria, sanità, logistica, smart city.
Da qui l’invito a guardare a esperienze diverse, come quella del Brasile. Nel 2020-2021, ha ricordato il presidente di Asstel, il Paese sudamericano ha scelto un modello meno orientato al massimo incasso e più concentrato sugli obblighi di copertura e investimento. Il risultato, secondo Labriola, è che oggi il Brasile è il secondo Paese al mondo per copertura 5G stand alone: “Sapete dove vanno le startup e le grandi multinazionali a testare i nuovi servizi? In Brasile”.
L’Italia, invece, si trova con frequenze carissime, copertura in ritardo e la necessità di discutere ora il rinnovo delle licenze. “Abbiamo l’opportunità di rinnovare le frequenze a titolo oneroso: dobbiamo applicare il modello che altri Paesi hanno utilizzato con successo”, ha insistito Labriola, chiedendo un ripensamento complessivo del sistema di assegnazione.
Un’Europa a 120 operatori contro i tre giganti Usa
Accanto al tema dei costi, Asstel torna a puntare il dito sulla frammentazione del mercato europeo. “Abbiamo un mercato troppo frammentato, con 120 operatori”, ha ricordato Labriola. Un numero enorme se confrontato con gli Stati Uniti, “un Paese grande quanto l’Europa”, dove “ci sono solo tre operatori”.
Questa dispersione, nella lettura dell’industria, rende quasi impossibile generare economie di scala comparabili a quelle dei concorrenti americani e asiatici. Negli ultimi anni, alcuni Paesi hanno iniziato a muoversi verso il consolidamento: “In Francia, Spagna e in Inghilterra – non appena uscita dall’Ue – si sta scendendo da quattro a tre operatori, spesso con l’impegno di costruire la rete 5G”, ha spiegato Labriola.
Per Asstel, l’Europa dovrebbe accompagnare questo processo in modo ordinato, legandolo a precisi obblighi di investimento e qualità del servizio. Il rischio, altrimenti, è che gli operatori europei restino troppo piccoli per reggere il confronto con le Big Tech e con le telco globali, ma allo stesso tempo troppo indeboliti per sostenere la corsa agli investimenti richiesti dalla transizione digitale.
Big Tech, da partner a “rapporto quasi parassitario”
Su questo sfondo si inserisce il tema dei rapporti con le grandi piattaforme. “Un tempo le telco europee detenevano il controllo delle infrastrutture fisiche, ma oggi gran parte del valore è nelle mani delle Big Tech”, ha affermato Labriola. Le grandi aziende del web, nella ricostruzione di Asstel, “hanno costruito modelli di business altamente redditizi senza investire direttamente nelle reti”.
Il rapporto fra chi costruisce le infrastrutture e chi le sfrutta per veicolare i propri servizi si sarebbe così trasformato: “Da simbiotico è diventato quasi parassitario”. Una definizione che riassume la posizione di una parte crescente dell’industria Tlc, che chiede a Bruxelles di intervenire per riequilibrare la catena del valore, riconoscendo alle telco un ruolo più forte e chiedendo ai big del digitale un contributo maggiore ai costi delle reti.
Da qui anche l’appello affinché l’Europa favorisca la nascita di “champions europei” nelle infrastrutture digitali critiche – connettività, cloud, data center, cybersecurity – in cui le telco possano essere protagoniste. “Le telco possono e devono essere tra questi attori”, ha insistito il presidente di Asstel, invitando a non relegare il ruolo degli operatori di rete a semplici fornitori di capacità a basso costo.
Occupazione: “Noi garantiamo i posti di lavoro, ma qualcosa deve cambiare”
Nel quadro delineato da Asstel, la questione occupazionale emerge come un banco di prova concreto. “Noi stiamo garantendo i livelli occupazionali, non c’è nessuno che vuole ridurre i posti di lavoro”, ha assicurato Labriola, avvertendo però che “se non ci saranno alcuni cambi, diversamente qualcosa succede”.
Per rendere il paragone, Labriola ha citato il caso di Verizon: 120mila dipendenti e 18 miliardi di utili all’anno, con 17mila persone mandate a casa in una sola tornata. E quello degli hyperscaler e degli Ott statunitensi, che negli ultimi anni hanno annunciato decine di migliaia di tagli. Il messaggio implicito è che, in assenza di correttivi, anche gli operatori italiani potrebbero essere costretti a muoversi lungo quella strada.
Sul fronte delle competenze, il settore rivendica l’impegno messo in campo: nel 2024 gli operatori hanno coinvolto circa 49mila persone in percorsi di formazione, per una media di oltre tre giornate pro capite. Per Asstel, si tratta di una base importante ma non sufficiente: servono strumenti più robusti e stabili, come un rafforzamento del contratto di espansione e del Fondo nuove competenze, oltre a interventi strutturali sul settore dei call center, storicamente esposto a concorrenza di prezzo e delocalizzazioni.
Le sei leve di Asstel per rilanciare le Tlc
Per evitare che l’Italia rimanga la “maglia nera” europea su 5G e investimenti, Asstel ha individuato sei leve prioritarie di intervento. La prima è la definizione di regole chiare e stabili per attrarre investimenti, riducendo l’incertezza regolatoria e riconoscendo il carattere strategico delle infrastrutture di connettività.
La seconda riguarda la creazione di condizioni favorevoli alla crescita infrastrutturale: semplificazione burocratica, autorizzazioni più rapide, coordinamento fra livello nazionale e locale per evitare blocchi e rallentamenti nella posa di reti e impianti. Terzo capitolo, la revisione del sistema di assegnazione e rinnovo delle frequenze: abbandonare la logica delle maxi-aste una tantum, puntando su meccanismi che distribuiscano nel tempo gli oneri e leghino il costo delle licenze agli obblighi di copertura e qualità.
La quarta leva è il riconoscimento del ruolo delle Tlc come industria ad alta intensità energetica, con la possibilità di accedere a misure dedicate per mitigare il caro-energia, analoghe a quelle previste per altri settori energivori. Quinta priorità, la riforma strutturale del settore dei call center, per conciliare competitività, qualità del servizio e tutela occupazionale.
Infine, Asstel chiede politiche industriali “lungimiranti” che favoriscano la formazione continua e una flessibilità del lavoro coerente con la trasformazione digitale, in grado di accompagnare il cambiamento senza scaricarne i costi sui lavoratori.
“Regole nuove” per non perdere il treno del digitale
Al centro di tutto, secondo Asstel, c’è la necessità di un aggiornamento profondo delle regole. “Stiamo mettendo il digitale fuori dall’Europa. Dobbiamo invertire questa rotta. La velocità a cui va questo mondo non possiamo sostenerla con regole vecchie”, ha affermato Labriola, sottolineando come la lentezza decisionale rischi di diventare un handicap insormontabile.
Per l’industria delle telecomunicazioni, la posta in palio va ben oltre il perimetro del settore. La qualità e la capillarità delle reti, ha ricordato il presidente di Asstel, hanno un impatto diretto sul Pil, sulla competitività del sistema produttivo, sulla capacità di attrarre investimenti e trattenere competenze. “Non siamo qui a parlare solo di telecomunicazioni, ma del futuro dell’economia italiana”, ha sintetizzato.
Il Forum nazionale delle telecomunicazioni si chiude così con un messaggio chiaro alle istituzioni: senza un riequilibrio tra sostenibilità economica degli operatori, tutela dei consumatori e valorizzazione delle infrastrutture digitali, l’Italia rischia di restare in coda non solo nell’adozione del 5G, ma nell’intera corsa al digitale. E questa volta – avverte il settore – recuperare il tempo perso potrebbe non essere così semplice.
Tim, le intese sul 5G e il dossier frequenze
Nel frattempo, Tim prova a muoversi sul piano industriale. Labriola ha ricordato che con Nokia il gruppo ha iniziato a firmare contratti per costruire le reti di nuova generazione 5G e ha lasciato intendere che altre intese sono allo studio: “Certamente sì, stiamo studiando e lavorando” ha spiegato, rispondendo a chi chiedeva se fossero in vista nuovi accordi con altri operatori tecnologici.
La condizione preliminare, però, resta il chiarimento del quadro regolatorio: “Ora aspettiamo che ci sia qualche segnale in termini di rinnovo delle frequenze a titolo non oneroso”, ha detto l’ad di Tim, collegando di fatto la strategia industriale del gruppo all’esito del confronto con governo e autorità sulle future licenze.
Quanto ai rapporti con Poste Italiane, primo azionista della compagnia telefonica, Labriola ha liquidato con un “tutto bene, siamo tutti felici”, a segnalare – almeno pubblicamente – un allineamento sulla traiettoria industriale.
Gola: “Definire un percorso di switch-off delle vecchie reti in rame”
A margine del forum, l’Ad di Open Fiber, Giuseppe Gola, ha ricordato che “la connettività non è solo una tecnologia: è il motore dell’innovazione sociale, culturale ed economica. Per crescere davvero serve un ecosistema solido, moderno e sostenibile, capace di accompagnare l’Italia e l’Ue verso il loro pieno potenziale digitale”.
“Una direzione confermata anche dal Rapporto Asstel 2025, che richiama l’urgenza di un’accelerazione reale: è il momento di mettere in campo tutto il nostro know-how ma servono politiche industriali mirate – ha puntualizzato Gola – Per noi significa spingere sull’adozione della rete in fibra FTTH e definire un percorso di switch-off delle vecchie reti in rame: in Italia, infatti, abbiamo un take up del 28% sulla rete FTTH, molto inferiore alla media europea che supera il 50%. Solo così la trasformazione digitale può avere attuazione concreta. Un percorso che richiede la cooperazione di tutti gli attori, un impegno condiviso per trasformare l’infrastruttura costruita in un motore di inclusione e crescita per cittadini, Pubbliche Amministrazioni e pmi”.













































