LE NUOVE RETI

Se l’Internet of things si modella sulla botanica

Il mondo vegetale non “pensa”, ma potrebbe diventare un paradigma per lo sviluppo di IoT e robotica. Ecco le sperimentazioni in campo

Pubblicato il 11 Giu 2016

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Da che se ne ha memoria, nello sviluppo tecnologico l’uomo ha sempre cercato di progredire avendo come obiettivo il miglioramento delle proprie funzioni biologiche o la riproduzione di quelle di animali meglio adattati alla vita in ambienti estremi. Oggi che la sfida con la fisica meccanica, per lo meno sul pianeta Terra, è in buona parte stata vinta, la ricerca si sta rivolgendo agli aspetti più immateriali della realtà: comunicazione, relazione tra sistemi, raccolta ed elaborazione dei dati per descrivere, interpretare e influenzare organizzazioni di individui e macchine.

È il sogno dell’Internet of Things, e anche stavolta gli sforzi sono quasi esclusivamente rivolti all’emulazione della fisiologia umana, con la creazione di veri e propri sistemi nervosi artificiali formati da gangli e sensori che assorbono le informazioni, le condividono e le trasmettono al Cloud che, fungendo da cervello, suggerisce o addirittura prende in maniera autonoma decisioni utili alla collettività.

Ma c’è chi pensa a un’altra versione della storia. Sul globo terrestre oltre il 90% delle specie viventi è composto da piante. Sul piano squisitamente adattativo, è dunque quello vegetale il regno che ha ottenuto il maggior successo del pianeta. E ci sono precise ragioni: a differenza di quanto si immagini, le piante reagiscono all’ambiente circostante interagendo con i propri simili e altri organismi attraverso precisi segnali diramati per via chimica, elettrica o addirittura vibrazionale, attivando in maniera del tutto automatica difese, cambiamenti di stato, veri e propri comportamenti che influiscono sull’ecosistema, modificandolo.

Esistono specie che, se attaccate da insetti, emettono segnali olfattivi che vengono recepiti da individui della stessa famiglia permettendo loro di attivare difese contro i predatori. E non si tratterebbe solo di puro istinto: gli studi condotti da Monica Gagliano, docente della University of Western Australia, hanno dimostrato che la Mimosa Pudica (una pianta capace di ritrarre le proprie foglie in caso di eventi traumatici prodotti dall’esterno) è in grado di sviluppare un comportamento che rasenta ciò che in ambito animale sarebbe definito “esperienza”.

Facendo cadere la pianta più volte su una superficie di gommapiuma, che quindi non danneggiava i rami, dopo aver ripetuto l’esperimento, Gagliano si è accorta che la mimosa non ritraeva più le foglie, avendo la pianta “avvertito” che l’impatto non causava alcun effetto. La ricercatrice si è vista rifiutare la pubblicazione del proprio lavoro una decina di volte prima di riuscire a trovare una rivista scientifica disposta a condividere con la comunità mondiale i risultati dell’indagine. Se dunque lo scetticismo su alcune possibili conclusioni in questo ambito di ricerca è ancora molto diffuso, gli scienziati concordano sul fatto che in molti casi i vegetali possono sviluppare segnali o reazioni in maniera più efficace di quanto riesca a fare l’uomo. Gli esseri umani dispongono infatti di cinque sensi mentre, stando a quanto scoperto negli ultimi anni, le piante hanno almeno una ventina di tipi di ricettori, molti dei quali trascendono le nostre facoltà, essendo per esempio in grado di misurare con precisione anche livello di umidità, gravità e campi elettromagnetici, sfruttandone gli stimoli per avvantaggiarsene sul piano della sopravvivenza.

Si può dunque parlare di intelligenza delle piante? Secondo Daniel Chamovitz, ricercatore all’università di Tel Aviv e autore del saggio ‘What A Plant Knows’, no. “Le piante non pensano, sono semplicemente consapevoli dello spazio in cui sono inserite perché straordinariamente adattate a quello specifico ecosistema, che trasmette senza soluzione di continuità informazioni alle radici, alle foglie e ai fiori. Informazioni che vengono integrate pur in assenza di un cervello, attraverso un meccanismo di fatto ancora sconosciuto. Un meccanismo che dobbiamo scoprire”, prosegue Chamovitz, “visto che il cervello è di per sé una soluzione magnifica sotto il profilo evolutivo per l’elaborazione dei dati – fondamentale per scrivere una sinfonia o risolvere problemi di algebra lineare – ma di certo non è l’unica risposta alle esigenze di integrazione delle informazioni”.

Potrebbe dunque il mondo vegetale diventare un paradigma per uno sviluppo alternativo dell’Internet of Things e di alcune applicazioni della robotica? Stefano Mancuso, direttore del LINV – Laboratorio internazionale di Neurobiologia vegetale di Firenze, autore del libro ‘Verde brillante’ e tra i massimi esperti di una disciplina giovane ma già capace di attirare gli sguardi di molti investitori, ne è convinto. Come spiega qui a fianco nell’intervista concessa a CorCom.

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