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Data retention addio, ma possiamo permettercelo?

L’avvocato Guido Scorza interviene sulla sentenza della Corte Ue che cancella la direttiva: “Il provvedimento rischia di mettere ko centinaia di processi in corso”

Pubblicato il 23 Apr 2014

Data retention addio, ma possiamo permettercelo?

Nelle scorse settimane la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con una sentenza tanto attesa quanto sorprendente, ha stabilito che la disciplina europea – e non quella di un singolo Stato – che obbligava i fornitori di servizi di comunicazione di tutta Europa a conservare i dati di traffico telefonico e telematico dei loro utenti per garantire a magistratura e forze dell’ordine la repressione di non meglio individuati “gravi reati” è fuori legge perché viola il diritto alla privacy dei cittadini europei.

Troppo lunghi, secondo i Giudici della Corte di Giustizia, i termini – da sei a ventiquattro mesi – degli obblighi di conservazione dei dati dei cittadini e troppo generica la definizione dei “gravi reati” che perimetrava il novero delle ipotesi nelle quali i fornitori europei avrebbero dovuto porre a disposizione delle forze di polizia e dei giudici i dati dei propri utenti.

Così come era, la direttiva non garantiva un adeguato bilanciamento tra le esigenze di repressione dei reati e quelle di tutela del diritto fondamentale alla privacy dei cittadini europei. È per questo che la Corte di Giustizia ha cancellato, con un colpo di spugna, netto e senza sbavature, la vecchia Direttiva 2006/24/CE. Sin qui i fatti. Ma ora che accadrà?

In Italia, come in molti altri Paesi europei, la legge – in particolare il Codice Privacy che, ironia della sorte, disciplina la materia – prevede esattamente quanto prevedeva la direttiva dell’unione europea.
In queste condizioni l’incompatibilità tra la “data retention” all’italiana e la disciplina europea come interpretata dalla Corte di Giustizia è una conclusione cui si perviene attraverso un’operazione quasi sillogistica.
Così stando le cose è solo questione di tempo e poi nel primo processo in cui i nostri giudici proveranno ad utilizzare i dati di traffico, la difesa dell’imputato potrà sollevare una questione di “pregiudizialità comunitaria” e chiedere alla Corte di Giustizia di “bissare” il verdetto appena emesso, dichiarando la contrarietà ai principi fondamentali del diritto dell’Ue anche della nostra legge. A quel punto l’identificazione dell’imputato basata sui dati di traffico e, dunque, su dati illegittimamente raccolti, diverrebbe claudicante, per non dire inutilizzabile e il processo finirebbe li. Una “mannaia” che pesa su centinaia di processi in corso e un lusso che il “sistema giustizia” non si può permettere.

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