I semiconduttori sono il “cervello” di ogni oggetto intelligente – senza chip non circolano auto, non volano droni, non funziona la rete elettrica. La produzione crea ricchezza locale e competenze difficili da delocalizzare, perché richiede personale ultra‑specializzato, capex elevati e supply chain di precisione. Le crisi di fornitura hanno un costo sociale enorme: l’Europa ha perso decine di miliardi di valore aggiunto quando i wafer asiatici si sono fermati. Controllare i nodi produttivi significa avere voce in capitolo su standard e sicurezza, dal 2 nm logico alle tecnologie di packaging avanzato (dove l’Italia sta investendo a Novara con Silicon Box). Chip e transizione verde vanno a braccetto: senza dispositivi di potenza efficienti l’e‑mobility e le rinnovabili rallentano.
La manifattura di chip genera filiere ad altissimo valore aggiunto (materiali, macchinari litografici, software Eda, test‑&‑packaging): ogni posto in fabbrica ne attiva 6‑7 nell’indotto. Negli Usa gli investimenti in corso valgono oltre 500mila nuovi posti fra diretti e indiretti.
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I passi falsi di Intel
Ritardi nei nodi produttivi: il flop del 10 nm (partito in volumi solo nel 2021) e lo slittamento di Intel 7/4 hanno permesso a Tsmc e Samsung di conquistare il primato dei processi avanzati. Reuters ricorda che Intel oggi «potrebbe uscire dal business delle fonderie avanzate se non troverà clienti per il nodo 14A».
Impatto competitivo: un concorrente che sta risalendo la china, Amd (processi Tsmc 5 nm/3 nm) ha rosicchiato quota nei data‑center, Apple e i SoC Arm hanno tolto margini nel premium laptop, mentre Nvidia domina gli acceleratori AI. Intel ha perso terreno proprio nei segmenti a più alta crescita.
Pressioni di mercato e struttura dei costi
Domanda Pc in calo dopo il boom pandemico e margini sotto stress nei server hanno appiattito i ricavi (12,9 mld $ nel 2Q 25, invariati a/a). Capex “sproporzionati”: l’ex ceo di Intel Pat Gelsinger puntava sull’iniziativa Idm 2.0 con 25–30 mld $ di investimenti annui. Il nuovo ceo Lip‑Bu Tan ha giudicato «eccessivo e prematuro costruire fabbriche senza ordini certi» e ha avviato 17 mld $ di tagli ai costi operativi.
Perché proprio l’Europa è stata sacrificata
Alcuni fattori hanno determinato la scelta di abbandonare il piano di investimenti in Europa: il primo riguarda un gap di sovvenzioni: Per la fab di Magdeburgo Intel chiedeva ~10 mld € di aiuti; l’escalation dei costi di cantiere e inflazione ha portato a nuove richieste di 4–5 mld € che Berlino non ha accolto.
Costi energetici e di materiali più alti: Intel stessa ha citato «construction & energy costs unsustainable» nelle note di cancellazione (erodevano il Roi già messo sotto pressione dal calo domanda). Iter autorizzativi complessi: La procedura tedesca è durata mesi; in Usa l’approvazione Chips Act è molto più rapida. Pertanto ritardi ed extracosti hanno portato alla revisione dei piani: Il nuovo piano punta a “ottimizzare gli asset esistenti” (Irlanda resta hub 3 nm) e a concentrare cassa su Ohio/Arizona se e quando il mercato confermerà ordini. Progetto Europeo non più “globally competitive” rispetto a Usa (Chips Act centrale) o Asia (Malesia, Vietnam).
La somma di questi fattori ha spinto Intel a cancellare i siti europei anziché congelarli: rinunciare ora evita ulteriori svalutazioni e consente di recuperare cassa nel breve, sebbene significhi perdere 9–10 mld € di sussidi già negoziati.
Le cinque cause chiave della crisi di Intel
- Ritardi tecnologici cronici che hanno fatto perdere la “moore‑law leadership” a vantaggio di Tsmc.
- Erosione delle quote di mercato nei Pc nei server e (ora) nell’AI accelerata da competitor più agili.
- Capex eccessivi senza domanda corrispondente, che hanno gonfiato il debito e ridotto il free cash‑flow.
- Margini unitari compressi da mix prodotto sfavorevole e guerra dei prezzi sul mainstream x86.
- Macro‑fattori europei (inflazione costruzioni, energia cara, sussidi frammentati) che rendono i grandi impianti Ue meno redditizi di quelli Usa o asiatici.
Conseguenze e scenari
Intel: dovrà trovare un cliente di peso per il nodo 14A entro il 2026 o valutare l’uscita dalle fonderie avanzate, spostando parte della produzione consumer su Tsmc. Per l’Europa: la ritirata di Intel è uno schiaffo alla strategia del Chips Act e riapre il dibattito su come attrarre investimenti senza un budget federale paragonabile a quello statunitense. Per quel che riguarda il Mercato globale: la concentrazione di capacità in USA e Asia aumenta la dipendenza dell’Occidente da due soli macro‑poli produttivi, con rischi di supply chain e di potere di prezzo.
In sintesi
La “crisi Intel” nasce da anni di ritardi tecnologici e scelte d’investimento aggressive ma poco allineate alla domanda reale. L’arrivo di Lip‑Bu Tan ha imposto una cura di dimagrimento drastica: tagli al personale, riduzione di management, stop ai progetti giudicati non redditizi – e l’Europa, tra costi alti e sussidi incerti, è stata la prima vittima eccellente.
L’investimento Europeo era suddiviso in R&D localizzato in Francia, la produzione in Germania e il back-end in Polonia. L’Italia per 3 anni e due governi, si è accorta tardi della possibilità di attrarre Intel e poi ha fatto veramente poco per trovare un accordo.
Oggi i bontemponi che avrebbero dovuto portare a casa quegli investimenti si sfregano le mani perché magari avevano già fiutato le difficoltà di Intel. I motivi per cui abbbiamo perso quegli investimenti sono tutti li e sono stati giudicati molto più rilevanti di quelli di Francia, Germania e Polonia. Per questo hanno ben poco da rallegrarsi. Tutto ciò che serve all’Ai e alla mobilità elettrica, lo si fa sempre più lontano da noi. A noi resta l’investimento di 3,2 mld€ di Silicon Box a Novara, per il 40% sostenuto dallo Stato.