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Intel, un gigante in crisi: quando la strategia sbagliata costa più della tecnologia



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Ritardi nei processi produttivi, investimenti sbilanciati e scelte poco allineate alla domanda hanno messo in ginocchio il colosso dei chip. Il fallimento europeo è solo l’effetto visibile di una crisi più profonda, che dimostra come, nel mondo dei semiconduttori, la visione strategica vale quanto l’innovazione

Aggiornato il 29 lug 2025

Marco Bentivogli

Esperto politiche innovazione industriale



Secure-Microchip-orizz

I semiconduttori sono il “cervello” di ogni oggetto intelligente – senza chip non circolano auto, non volano droni, non funziona la rete elettrica. La produzione crea ricchezza locale e competenze difficili da delocalizzare, perché richiede personale ultra‑specializzato, capex elevati e supply chain di precisione. Le crisi di fornitura hanno un costo sociale enorme: l’Europa ha perso decine di miliardi di valore aggiunto quando i wafer asiatici si sono fermati. Controllare i nodi produttivi significa avere voce in capitolo su standard e sicurezza, dal 2 nm logico alle tecnologie di packaging avanzato (dove l’Italia sta investendo a Novara con Silicon Box). Chip e transizione verde vanno a braccetto: senza dispositivi di potenza efficienti l’e‑mobility e le rinnovabili rallentano.

La manifattura di chip genera filiere ad altissimo valore aggiunto (materiali, macchinari litografici, software Eda, test‑&‑packaging): ogni posto in fabbrica ne attiva 6‑7 nell’indotto. Negli Usa gli investimenti in corso valgono oltre 500mila nuovi posti fra diretti e indiretti.

I passi falsi di Intel

Ritardi nei nodi produttivi: il flop del 10 nm (partito in volumi solo nel 2021) e lo slittamento di Intel 7/4 hanno permesso a Tsmc e Samsung di conquistare il primato dei processi avanzati. Reuters ricorda che Intel oggi «potrebbe uscire dal business delle fonderie avanzate se non troverà clienti per il nodo 14A».

Impatto competitivo: un concorrente che sta risalendo la china, Amd (processi Tsmc 5 nm/3 nm) ha rosicchiato quota nei data‑center, Apple e i SoC Arm hanno tolto margini nel premium laptop, mentre Nvidia domina gli acceleratori AI. Intel ha perso terreno proprio nei segmenti a più alta crescita.

Pressioni di mercato e struttura dei costi

Domanda Pc in calo dopo il boom pandemico e margini sotto stress nei server hanno appiattito i ricavi (12,9 mld $ nel 2Q 25, invariati a/a). Capex “sproporzionati”: l’ex ceo di Intel Pat Gelsinger puntava sull’iniziativa Idm 2.0 con 25–30 mld $ di investimenti annui. Il nuovo ceo Lip‑Bu Tan ha giudicato «eccessivo e prematuro costruire fabbriche senza ordini certi» e ha avviato 17 mld $ di tagli ai costi operativi.

Perché proprio l’Europa è stata sacrificata

Alcuni fattori hanno determinato la scelta di abbandonare il piano di investimenti in Europa: il primo riguarda un gap di sovvenzioni: Per la fab di Magdeburgo Intel chiedeva ~10 mld € di aiuti; l’escalation dei costi di cantiere e inflazione ha portato a nuove richieste di 4–5 mld € che Berlino non ha accolto.

Costi energetici e di materiali più alti: Intel stessa ha citato «construction & energy costs unsustainable» nelle note di cancellazione (erodevano il Roi già messo sotto pressione dal calo domanda). Iter autorizzativi complessi: La procedura tedesca è durata mesi; in Usa l’approvazione Chips Act è molto più rapida. Pertanto ritardi ed extracosti hanno portato alla revisione dei piani: Il nuovo piano punta a “ottimizzare gli asset esistenti” (Irlanda resta hub 3 nm) e a concentrare cassa su Ohio/Arizona se e quando il mercato confermerà ordini. Progetto Europeo non più “globally competitive” rispetto a Usa (Chips Act centrale) o Asia (Malesia, Vietnam).

La somma di questi fattori ha spinto Intel a cancellare i siti europei anziché congelarli: rinunciare ora evita ulteriori svalutazioni e consente di recuperare cassa nel breve, sebbene significhi perdere 9–10 mld € di sussidi già negoziati.


Le cinque cause chiave della crisi di Intel

  1. Ritardi tecnologici cronici che hanno fatto perdere la “moore‑law leadership” a vantaggio di Tsmc.
  2. Erosione delle quote di mercato nei Pc nei server e (ora) nell’AI accelerata da competitor più agili.
  3. Capex eccessivi senza domanda corrispondente, che hanno gonfiato il debito e ridotto il free cash‑flow.
  4. Margini unitari compressi da mix prodotto sfavorevole e guerra dei prezzi sul mainstream x86.
  5. Macro‑fattori europei (inflazione costruzioni, energia cara, sussidi frammentati) che rendono i grandi impianti Ue meno redditizi di quelli Usa o asiatici.

Conseguenze e scenari

Intel: dovrà trovare un cliente di peso per il nodo 14A entro il 2026 o valutare l’uscita dalle fonderie avanzate, spostando parte della produzione consumer su Tsmc. Per l’Europa: la ritirata di Intel è uno schiaffo alla strategia del Chips Act e riapre il dibattito su come attrarre investimenti senza un budget federale paragonabile a quello statunitense. Per quel che riguarda il Mercato globale: la concentrazione di capacità in USA e Asia aumenta la dipendenza dell’Occidente da due soli macro‑poli produttivi, con rischi di supply chain e di potere di prezzo.

In sintesi

La “crisi Intel” nasce da anni di ritardi tecnologici e scelte d’investimento aggressive ma poco allineate alla domanda reale. L’arrivo di Lip‑Bu Tan ha imposto una cura di dimagrimento drastica: tagli al personale, riduzione di management, stop ai progetti giudicati non redditizi – e l’Europa, tra costi alti e sussidi incerti, è stata la prima vittima eccellente.

L’investimento Europeo era suddiviso in R&D localizzato in Francia, la produzione in Germania e il back-end in Polonia. L’Italia per 3 anni e due governi, si è accorta tardi della possibilità di attrarre Intel e poi ha fatto veramente poco per trovare un accordo.

Oggi i bontemponi che avrebbero dovuto portare a casa quegli investimenti si sfregano le mani perché magari avevano già fiutato le difficoltà di Intel. I motivi per cui abbbiamo perso quegli investimenti sono tutti li e sono stati giudicati molto più rilevanti di quelli di Francia, Germania e Polonia. Per questo hanno ben poco da rallegrarsi. Tutto ciò che serve all’Ai e alla mobilità elettrica, lo si fa sempre più lontano da noi. A noi resta l’investimento di 3,2 mld€ di Silicon Box a Novara, per il 40% sostenuto dallo Stato.

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