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Senza accesso ai dati, l’AI rischia di spegnere l’innovazione. Ecco perché



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Dalla correzione automatica delle ricerche alle nuove capacità di calcolo, il digitale vive un circolo che premia chi possiede più informazioni e strumenti per sfruttarle. Una via d’uscita possibile – secondo Viktor Mayer-Schönberger, professore presso Oxford University’s Internet Institute – passa da regole che rendano disponibili risorse non personali e incentivino l’uso intelligente, riattivando concorrenza e creatività economica

Pubblicato il 15 dic 2025



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Google è straordinariamente bravo a capire cosa volessimo scrivere quando digitiamo male una query. Eppure, come osserva Viktor Mayer-Schönberger, Professore di Internet Governance and Regulation presso l’Oxford University’s Internet Institute, sul blog del Fondo Monteario Internazionale, non si tratta di un colpo di genio istantaneo o di un’intuizione “magica”: il punto è che la qualità della risposta nasce dalla quantità e dalla pertinenza dell’esperienza accumulata. Nel caso del motore di ricerca, quell’esperienza è stata costruita nel tempo, addestrando il sistema su un’enorme massa di errori reali commessi dagli utenti.

Qui si innesta il cuore del ragionamento Mayer-Schönberger. Quello che spesso raccontiamo come “innovazione” non è solo il frutto di buone idee o di algoritmi più eleganti, ma l’esito di un meccanismo cumulativo: più persone usano un servizio, più quel servizio raccoglie segnali utili; più segnali raccoglie, più migliora; più migliora, più persone lo usano. L’esperto lo chiama “feedback effect.” E insiste su un dettaglio decisivo: chi possiede grandi flussi di dati non si limita ad averne “tanti”, ma dispone della materia prima necessaria a rendere migliore il prodotto, a raffinare l’esperienza, a consolidare la propria posizione.

Non è un caso che oggi Google valga circa nove ricerche su dieci. E non è un caso che, anche dopo una recente decisione antitrust, la sfida resti complessa: perché il punto non è soltanto “quanto è grande” un operatore, ma quanto è autoalimentata la sua capacità di migliorarsi.

Il turbo dell’intelligenza artificiale e la frattura tra chi può e chi non può

Per anni, il “feedback effect.” è stato il vantaggio strutturale delle grandi piattaforme. Ora, sostiene Mayer-Schönberger, “l’AI lo accelera e lo irrigidisce, trasformando una dinamica già sbilanciata in una corsa con distacchi sempre più difficili da colmare. L’autore lo dice senza giri di parole: l’AI sta ampliando la distanza tra data haves and have-nots.”

Addestrare e ottimizzare modelli richiede due ingredienti in dosi massicce: informazioni e potenza di calcolo. E qui la fotografia diventa politica ed economica insieme. Da un lato, le grandi piattaforme possiedono dati in abbondanza e infrastrutture per “crunch” nei loro data center; dall’altro, ciò che manca può essere acquistato, perché il mercato dei capitali sta convogliando risorse enormi proprio verso l’AI. In altre parole: non è solo un vantaggio tecnologico, è un vantaggio finanziario che si converte in ulteriore vantaggio tecnologico.

Mayer-Schönberger collega questa dinamica a un dato che pesa come un macigno: sei grandi aziende – Alphabet, Netflix, Meta, Apple, Amazon e Microsoft – arrivano a generare quasi metà del traffico internet mondiale, e quattro tra queste dominano la capacità di calcolo per l’AI. Il risultato è un circuito che si rinforza: più dati portano a servizi migliori, servizi migliori attirano più utenti, più utenti generano più dati. Chi resta fuori da questo ciclo, spesso, non riesce nemmeno a entrarci.

Concentrazione, concorrenza e innovazione: quando il motore si ingolfa

Gli economisti, ricorda l’autore, conoscono da tempo l’ansia da concentrazione: economie di scala e di scopo rendono i grandi più efficienti, più capaci di abbassare costi e condizionare prezzi. Joseph Schumpeter, già nel 1942, ragionava su come la dimensione possa diventare leva di potere economico. Ma nella lettura di Mayer-Schönberger c’è un punto che vale come bussola: la miglior medicina contro la concentrazione è l’innovazione, perché le idee – quando competono davvero – creano prodotti migliori o del tutto nuovi, tenendo vivo il dinamismo.

Il problema è che, nell’economia dei dati, l’innovazione non è distribuita in modo “naturale”. Molte imprese tradizionali faticano a sfidare i dominanti: mancano di capacità computazionale, competenze tecniche, ma soprattutto – dice l’autore – manca una cultura, una mentalità. È il “data mindset”: la consapevolezza che usare i dati crea valore. Paradossalmente, tantissime aziende raccolgono dati e poi li lasciano inerti. Le indagini citate nel testo indicano che almeno l’80% di ciò che viene raccolto nel mondo non viene mai utilizzato. È una perdita secca di possibilità, e quel vuoto diventa vantaggio per chi invece sa trasformare i segnali in decisioni, servizi, innovazione.

Ma c’è anche un’altra faccia, più inquietante: la concentrazione può indebolire perfino chi domina. Economisti come Ufuk Akcigit hanno mostrato che, una volta raggiunta una posizione dominante, molte aziende spostano l’energia dall’innovare al difendere la rendita, proteggendo la quota di mercato. E qui Mayer-Schönberger aggancia l’argomento di Cory Doctorow: senza competizione robusta, un’impresa può perfino peggiorare l’offerta e mantenere comunque la propria presa sul mercato. Quando la concorrenza si spegne, non si spegne solo la sfida: si spegne anche l’obbligo di fare meglio.

Antitrust e privacy: rimedi importanti, ma non sempre risolutivi

Se la minaccia è così seria, è naturale cercare soluzioni nella cassetta degli attrezzi più nota: antitrust, regolazione della concorrenza, diritti individuali sui dati. Tuttavia, Mayer-Schönberger invita a distinguere tra sintomi e cause, e lo fa con una frase che suona come un avvertimento programmatico: “Using antitrust and competition regulation to break up large data platforms tackles the symptoms but not the cause of data concentration.”

Il punto è intuitivo: anche se si spezzasse un grande operatore, il meccanismo che premia chi può accedere ai maggiori volumi di dati resterebbe in piedi. Un altro attore potrebbe occupare lo spazio, e la dinamica si riformerebbe. In questa prospettiva, l’antitrust non è inutile, ma rischia di essere necessario senza essere sufficiente.

Neppure la soluzione basata sul controllo individuale dei dati – il paradigma di molte politiche europee, come il GDPR – riesce automaticamente a invertire la tendenza. Le persone dichiarano di tenere alla privacy, ma spesso non esercitano concretamente i diritti di controllo: perché richiede tempo, attenzione, competenze, e il beneficio personale appare limitato rispetto allo sforzo. È un problema classico di azione collettiva: ognuno aspetta che si muovano gli altri, e intanto le piattaforme continuano a utilizzare i dati con enorme libertà.

Anche l’idea di assegnare una “proprietà” giuridica dei dati incontra ostacoli pratici e rischi economici. Licenze, negoziazioni, complessità contrattuale: tutto ciò può ridurre l’accesso complessivo alle informazioni, frenando l’innovazione. E, soprattutto, i costi di transazione non pesano allo stesso modo su tutti: gravano di più su individui e start-up, spostando ancora l’equilibrio verso chi ha già scala, uffici legali e potere contrattuale.

La proposta: regole di accesso che premiano le idee, non l’accumulo

Qui Mayer-Schönberger sposta il baricentro: più che discutere soltanto di raccolta e proprietà, occorre parlare di accesso e di uso. E tra le opzioni, quelle che gli sembrano più promettenti sono le regole che impongono accesso ai dati, soprattutto non personali, quando ciò è disegnato bene e con attenzione agli incentivi.

L’intuizione è potente: se i dati generano valore soprattutto quando vengono applicati in modo intelligente, allora ha senso creare condizioni perché più attori possano provarci. Non per “regalare” vantaggi, ma per ridurre le barriere che impediscono alla concorrenza di esprimere idee migliori. Se le regole sono chiare e l’accesso è regolato, si riducono i costi di transazione: non serve negoziare licenze caso per caso, e le imprese più piccole possono sperimentare e innovare.

C’è anche un effetto indiretto che l’autore considera cruciale: se chi detiene i dati può estrarne valore soprattutto usandoli (e non semplicemente trattenendoli), allora viene spinto a diventare davvero “data savvy”. In questa lettura, le regole di accesso non sono solo una misura pro-competitiva: sono un incentivo culturale e industriale, perché spostano l’attenzione dall’accumulo alla capacità di trasformazione. L’economia non ha bisogno solo di più dati: ha bisogno di più uso dei dati.

Non è fantascienza: esempi storici e precedenti che cambiano prospettiva

L’idea può sembrare nuova, ma Mayer-Schönberger ricorda che non lo è affatto. Nel libro pubblicato con Thomas Ramge nel 2022, Access Rules, gli autori mostrano come i governi, in molte parti del mondo, siano già obbligati a garantire accesso a grandi quantità di informazioni.

L’esempio più emblematico è quello dei sistemi di geolocalizzazione: GPS (gestito dal Dipartimento della Difesa statunitense) e Galileo (dell’Unione Europea). L’accesso a dati di posizionamento accurati e gratuiti ha migliorato sicurezza e logistica, e ha generato un’industria enorme: un caso in cui l’apertura non ha distrutto valore, lo ha moltiplicato.

Esistono poi obblighi legali di pubblicazione che conosciamo bene anche fuori dal digitale: risultati finanziari, emissioni, trasparenza su metriche che impattano il mercato. Nel contesto europeo, le grandi piattaforme digitali sono già chiamate a condividere alcuni dati con concorrenti più piccoli. Negli Stati Uniti, diversi accordi antitrust hanno imposto in passato forme di accesso ai dati; lo stesso Google, ricorda l’autore, sarebbe stato recentemente coinvolto in richieste di questo tipo.

E poi c’è un caso “spettacolare” e spesso dimenticato: l’accordo antitrust degli anni Cinquanta che impose ad AT&T di concedere gratuitamente alle imprese statunitensi l’uso dei brevetti sul transistor. Start-up e nuovi attori colsero quell’opportunità, progettando circuiti integrati e contribuendo a far nascere Silicon Valley e l’era digitale. È una lezione storica che ribalta un luogo comune: a volte, l’accesso regolato è la scintilla che accende un ecosistema.

Mayer-Schönberger aggiunge un ultimo parallelo, quasi definitivo: il sistema dei brevetti, in molti Paesi, si regge proprio su un compromesso di accesso all’informazione. L’esclusiva è temporanea, ma viene concessa solo se l’inventore condivide i dettagli dell’invenzione, consentendo ad altri di imparare e costruire a loro volta.

Verso un’economia pienamente basata sui dati: scegliere la leva giusta

Se il mondo sta entrando in un’economia “comprehensive” dei dati, il valore potenziale della loro applicazione continuerà a crescere. Ma cresceranno anche le dinamiche di concentrazione, con costi che non restano confinati ai mercati digitali: toccano produttività, innovazione, pluralismo industriale. Per questo, conclude Mayer-Schönberger, servono politiche capaci di agire sulla causa profonda, non solo sugli effetti visibili.

In questa prospettiva, le regole di accesso ai dati – soprattutto non personali – emergono come lo strumento con maggiore promessa, perché spostano l’asse della competizione dall’accumulo alla capacità di ideare. E in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale rischia di rendere irreversibile il divario tra chi ha e chi non ha, la sfida non è punire la scala in quanto tale, ma impedire che la scala diventi l’unico modo per innovare.

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