LE INCHIESTE DI CORCOM

Smart working, Tagliavini: “Norme troppo timide, serve più pepe”

Il consigliere nazionale di Federmanager: “Il Paese sta affrontando la sfida del cambiamento con lentezza. Le regole in discussione, poco coraggiose, ne sono un sintomo. Rischiamo fra 5 anni di esser tagliati fuori dalla modernità”

Pubblicato il 18 Ago 2016

Antonello Salerno

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“Dov’è Piacentini? Dov’è la cabina di regia del commissario per l’attuazione dell’Agenda digitale in Italia? Lo smart working è soltanto un piccolo tassello, ma è trasversale. E’ una rivoluzione dei contratti di lavoro. Il nuovo modo di lavorare a livello mondiale. Potrebbe essere una leva per la modernizzazione del nostro paese, invece si è scelto di affrontare il tema in chiave conservativa, a tutela delle generazioni in uscita dal mondo del lavoro, senza considerare che queste regole diventeranno un freno per le generazioni in entrata. Chi lo spiega a un ragazzo che oggi ha 15 anni, che utilizza smarphone e tablet, che il suo lavoro sarà legato a una postazione fissa nell’headquarter di un’azienda o in un ufficio pubblico? Di questo passo tra cinque anni rischiamo di essere tagliati fuori dalla modernità”

Così Guelfo Tagliavini, consigliere nazionale di Federmanager, illustra a CorCom la sua posizione rispetto al disegno di legge sul lavoro agile licenziato all’inizio di agosto dalla commissione Lavoro del Senato, che approderà in aula a Palazzo Madama dopo la pausa estiva.

Tagliavini, ci saranno pure aspetti positivi in questo Ddl.

L’aspetto positivo è che se la legge andrà in porto potrà essere considerata un inizio, sarà meglio di niente. Ma le normative che si vanno definendo sono molto timide rispetto alle esigenze di modernizzazione del Paese. Ho l’impressione che lo smart working sia stato considerato come una delle tante cose da riformare in Italia adattandosi al passo della burocrazia nazionale. E anche il sindacato, tranne qualche rara eccezione, non si è fatto carico di questa opportunità. Avendo impiegato tanto tempo per mettere a punto le norme, dal mio punto di vista sarebbe stato necessario un po’ più di pepe. Questa legge innova di poco rispetto a una proposta nata più di tre anni fa, che aveva l’obiettivo di introdurre forme di salvaguardia per le figure più deboli. In un clima generale, anche a livello internazionale, in cui si parla tanto di 4.0 e digitalizzazione, pensare che lo smart working sia trattato ancora come un’eccezione non fa altro che rallentare la macchina. Oggi le aziende private sono in fermento su questi temi, con i motori accesi, e l’occupazione giovanile è già evoluta. Non possiamo muoverci come una nazione che procede a tre cilindri.

Quali sono dal suo punto di vista le principali criticità?

Oggi è quantomai necessario varare e applicare norme che consentono al lavoratore a tutti i livelli di svolgere la propria attività, top down, dall’Ad in giù, – compatibilmente con tipologia e caratteristiche produttive dell’azienda e amministrazione – da una postazione remota rispetto all’headquarter. Questo grazie all’introduzione di soluzioni tecnologiche sempre più avanzate e sofisticate che consentono di raggiungere i risultati attraverso l’uso massivo della rete e dei relativi sistemi di comunicazione. L’Italia è nelle ultime posizioni nella catena dell’applicazione del lavoro agile. La prima criticità del Ddl è relativa al criterio della volontarietà dell’utilizzo di modalità innovative di lavoro, che invece dovrebbero rappresentare la norma ed essere applicabili indifferentemente rispetto a quelle tradizionali. Il fatto che il contratto che debba esserci una scelta e una condizione di negoziazione tra lavoratore e datore di lavoro è un freno.

E il secondo aspetto?

E’ la forte differenziazione tra i criteri applicabili in ambito privato rispetto alla Pubblica amministrazione. Il mondo del privato ha ritenuto funzionale queste modalità per il raggiungimento di obiettivi aziendali, a partire dal telelavoro per arrivare allo smart working. Una normativa coraggiosa doveva mettere in modo questo processo nella PA con decisione. Una buona parte dei 3,5 milioni di dipendenti pubblici in Italia potrebbe applicare da domani modalità di lavoro agile, con risultati evidenti sugli obiettivi ed economie di scala importanti, fino a tre miliardi l’anno se venisse applicato normalmente a un milione e mezzo di lavoratori: sarebbero oro per le casse dello stato.

Non si porrebbe in questo modo uno scoglio rispetto alla formazione e alle competenze digitali dei dipendenti?

Oggi si tratta di gettare il cuore oltre l’ostacolo. E’ chiaro che il problema della formazione, per le persone che sono già nel mondo del lavoro, esiste. Ma su questo ad esempio anche noi avremmo delle proposte per contribuire a superarlo, e abbiamo fatto presente al Governo la nostra posizione. Ma i più giovani le competenze le hanno già, e nelle norme dovrebbero trovare stimoli, non freni.

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