L’adozione dell’Intelligenza Artificiale nel settore delle telecomunicazioni non è più una prospettiva futura, ma una realtà che sta ridefinendo processi, competenze e modelli di business. Tra efficienza operativa e complessità infrastrutturale, il dibattito sull’AI nelle telecomunicazioni si gioca oggi su un equilibrio fragile: da un lato la promessa di automazione e nuovi servizi, dall’altro il rischio di rallentamento legato al debito tecnologico e alla difficoltà di attrarre talenti.
Un confronto tra Mitch Wagner e Linda Hardesty, analisti del team di Fierce Network Research, mette in luce i due volti della trasformazione in corso.
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Le tre direttrici di cambiamento
Secondo Mitch Wagner, l’impatto dell’AI nel settore si manifesta lungo tre direttrici complementari: «AI for the telco», «AI by the telco» e «AI in the telco».
La prima riguarda gli usi interni — customer service, billing, sviluppo software — ambiti in cui le Telco si comportano come qualsiasi altra grande impresa che introduce automazione nei processi. La seconda, “AI by the telco”, include le soluzioni che gli operatori offrono ai clienti aziendali, come AI as a Service, GPU as a Service o veri e propri AI factory. Infine, “AI in the telco” indica le applicazioni di intelligenza artificiale direttamente sulle infrastrutture di rete, con l’obiettivo di ottimizzare la gestione e la manutenzione.
Tra gli esempi più recenti, Wagner cita Cisco, che ha presentato un AI Assistant per le operazioni di rete capace di diagnosticare e risolvere problemi attraverso un’interfaccia interattiva basata su diagrammi. Anche Nvidia si muove nella stessa direzione con i suoi large telco models, sviluppati in collaborazione con partner come SoftBank. Queste soluzioni, spiega l’analista, mostrano come l’intelligenza artificiale sia già pienamente integrata nella catena del valore delle telecomunicazioni, non solo come strumento sperimentale ma come leva operativa e competitiva.
Dalla rete al cliente: l’AI come leva di esperienza
Uno dei campi più promettenti dell’AI nelle telecomunicazioni riguarda la customer experience. Wagner sottolinea l’uso crescente di digital avatar e assistenti video alimentati da large language model (LLM) per migliorare l’interazione con i clienti. «I sondaggi mostrano che gli utenti preferiscono interagire con questi avatar rispetto ai chatbot tradizionali», afferma.
Un caso interessante è quello di Three Hong Kong, che utilizza l’AI per diagnosticare problemi di rete non solo sulle proprie infrastrutture ma anche su quelle di altri provider. «È un cambiamento culturale importante», osserva Wagner, «perché il parametro non è più la qualità del segnale ma l’esperienza percepita dal cliente».
Questa prospettiva ribalta il tradizionale approccio delle Telco, storicamente basato su metriche di rete come throughput e tasso di errore. L’obiettivo oggi è garantire un’esperienza coerente, anticipando i problemi che l’utente attribuisce comunque all’operatore, anche quando la causa risiede altrove.
Technical debt: il freno invisibile dell’innovazione
A questa visione ottimista si contrappone quella di Linda Hardesty, che definisce le Telco «non ancora pronte per l’AI». Il motivo principale è l’enorme technical debt accumulato in decenni di sviluppo frammentato. «Molte aziende — spiega — gestiscono ancora dati critici in fogli Excel, persino grandi operatori wireless».
La frammentazione dei sistemi, il software obsoleto e le stratificazioni dovute a fusioni e acquisizioni rendono difficile implementare modelli di AI su larga scala. Hardesty cita il caso di One Vision, società che aiuta gli operatori a gestire inventari e processi: il CEO racconta di aver trovato infrastrutture digitali costruite su architetture manuali e non integrate. «Non si può iniziare ad addestrare grandi modelli linguistici finché i dati non sono organizzati», ribadisce Hardesty.
Il problema è ancora più marcato nel mondo dei cable operator, che secondo l’analista «sono in condizioni peggiori delle Telco tradizionali». Le ragioni sono strutturali: l’infrastruttura ibrida fibra-coassiale (HFC) rende più complessa la disaggregazione hardware-software, e molte aziende non sono nemmeno arrivate alla fase di automazione. Durante un confronto con dirigenti di settore, racconta Hardesty, «gli executive ammettevano di non essere neppure vicini all’uso dell’AI, troppo impegnati a gestire l’eredità dei sistemi legacy».
Al centro del problema, aggiunge, «c’è la cosiddetta tirannia della CLI (command line interface)», una tecnologia di configurazione dei dispositivi che ha rallentato per anni l’automazione delle reti.
Cultura aziendale e competenze: l’altra sfida
Accanto ai limiti tecnologici, emerge un ostacolo di natura organizzativa e culturale. Wagner riconosce che non tutte le Telco sono pronte ad adattarsi, ma alcune mostrano progressi concreti. Cita Orange Business, che ha sviluppato un modello integrato di connettività cloud e cybersecurity basato su Live Intelligence, una piattaforma utilizzata da oltre 73.000 dipendenti.
L’AI, spiega, «richiede alle Telco di innovare, e storicamente non tutte sono state capaci di farlo. Quelle che sapranno valorizzare i propri asset — infrastrutture, relazioni con i governi, competenze territoriali — prospereranno. Le altre faranno più fatica».
Hardesty, dal canto suo, lega il tema dell’adattamento alla crisi del talento. Le reti più giovani e digitali, come Jio in India o Rakuten in Giappone, riescono a muoversi con maggiore agilità, mentre negli Stati Uniti gli operatori tradizionali faticano ad attrarre sviluppatori software. «Il bacino di competenze nel settore telecom è invecchiato, e i giovani ingegneri non percepiscono più il settore come stimolante», osserva. A questo si aggiunge la competizione salariale con i grandi player dell’AI, in grado di offrire stipendi e progetti più attrattivi.
L’automazione e la perdita delle competenze di base
Tra le questioni più delicate del dibattito sull’AI nelle telecomunicazioni c’è quella della sostituzione delle competenze umane. Wagner riconosce che «ci sarà sempre bisogno di skill di ingresso, ma questi cambieranno livello». L’analista paragona la situazione attuale a quella degli anni Sessanta, quando l’introduzione dei fogli elettronici automatizzò il lavoro contabile, ma non eliminò la professione: «Gli strumenti riducono i tempi e aumentano la produttività, creando nuova domanda di competenze più avanzate».
Hardesty concorda solo in parte. Riporta il parere di un esperto di Red Hat, secondo cui «è positivo quando i processi vengono codificati», poiché il sapere tecnico si trasferisce nel codice e diventa replicabile. Tuttavia, anche in questo scenario sarà necessario mantenere un controllo umano sull’AI, perché «i problemi continueranno a emergere e servirà qualcuno in grado di intervenire sul codice». L’evoluzione dell’AI, dunque, non cancella il ruolo dell’ingegnere, ma lo sposta sempre più verso funzioni di supervisione e aggiornamento dei modelli.
Il rischio del “dumb pipe”
La velocità dell’evoluzione tecnologica è un fattore determinante. Hardesty avverte che se le Telco continueranno a rallentare per gestire il debito tecnico, altre industrie potrebbero consolidare la propria leadership nell’AI. «Se le aziende tecnologiche svilupperanno piattaforme e applicazioni AI mentre le Telco saranno ancora impegnate a ripulire le proprie infrastrutture, queste ultime rischiano di diventare solo il tubo passivo su cui viaggia l’intelligenza altrui», spiega, richiamando l’immagine ricorrente del “dumb pipe”.
Wagner ribatte ricordando un punto essenziale: «L’AI non può funzionare senza le Telco. Senza rete, l’AI non comunica». Tuttavia, la questione cruciale resta quella della monetizzazione: se gli operatori riusciranno a trasformare la connettività in un asset strategico per l’ecosistema dell’intelligenza artificiale, potranno restare protagonisti della rivoluzione digitale. In caso contrario, rischiano di diventare infrastrutture invisibili, essenziali ma marginali nel valore complessivo generato.