L'INTERVISTA

Rete unica Tlc, Quintarelli: “Sì, ma solo a beneficio del Paese. No a monopoli senza obiettivi”

Il tema non è la governance ma la roadmap infrastrutturale. Compito dello Stato definire una tabella di marcia chiara e vincolata sulla fibra, altrimenti il risultato sarà un ritorno alla situazione ante Open Fiber

Pubblicato il 20 Apr 2020

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Le rete unica delle Tlc? Sono favorevole e lo sono sempre stato, ma a una condizione: che non si perda il dinamismo competitivo sul fronte infrastrutturale a cui abbiamo assistito dalla nascita di Open Fiber ossia che ci siano dei vincoli chiari da parte del pubblico su una roadmap infrastrutturale che sia funzionale alle esigenze del Paese”: è questa la tesi di Stefano Quintarelli, imprenditore, ex deputato ma soprattutto esperto di Ict, fra i pionieri dell’Internet italiana. “Abbiamo assistito negli ultimi anni a una competizione che ha consentito una spinta sulla fibra come non si vedeva dai tempi del Progetto Socrate, poi purtroppo naufragato. È stato un bene per il Paese, anche se per Tim in parte ha rappresentato una difficoltà”

Quintarelli, prché una difficoltà? Non trova che la rinnovata competizione abbia fatto bene anche a Tim?

Parliamoci chiaro: le aziende sono attività imprenditoriali e i bonus degli AD non sono di certo legati alla diffusione delle infrastrutture quanto piuttosto al conto economico e quindi al valore per gli azionisti. Più investimenti corrispondono a meno dividendi e per quanto gli investimenti siano fondamentali per lo sviluppo futuro del business per un’azienda come Tim che ha già una sua infrastruttura in rame massimizzare l’asset fa il paio con massimo sfruttamento della stessa per aumentare i margini a fronte di costi contenuti. La creazione di Open Fiber ha sparigliato le carte in tavola, soprattutto per un soggetto di fatto monopolista. Per il Paese è stato un bene perché per la prima volta è stato fatto un piano per le aree bianche e si è stimolata la competizione: i numeri ci dicono che la diffusione della fibra, per quanto ancora insufficiente, sia decisamente maggiore rispetto a qualche anno fa.  L’Italia è il paese che ha registrato negli ultimi due anni la  maggiore cresciuta in copertura Ftth in Europa (+43,1%), con 8,5 milioni di unità immobiliari collegate. Ma per un’azienda come Tim ciò ha comportato investimenti aggiuntivi non preventivati: costi non solo per la posa delle nuove reti ma anche per la loro manutenzione e gestione, un aspetto non da poco.

Detta così la fusione fra Tim e Open Fiber o l’integrazione degli asset in una newco non sarebbe da auspicare.

Credo che si possa fare un ragionamento su questo tema. Il governo si dice favorevole alla rete unica. Ma ciò di cui non si discute mai è a quali condizioni. Nel senso: se lo Stato considera fondamentale la realizzazione di un’infrastruttura unica in fibra deve anche chiarire quali sono gli obiettivi in termini di infrastrutturazione ossia di roadmap e di tempistiche chiare. Il rischio della fusione è che si torni a un monopolio e che quindi si torni a una fase di non competizione che inevitabilmente porterebbe a un rallentamento dei lavori. Gli azionisti, ribadisco, hanno interesse a massimizzare i propri asset e a veder fruttare gli investimenti. Peraltro ci troveremmo di fronte a un operatore verticalmente integrato potentissimo sul fronte wholesale e retail, con pochissimo spazio per i concorrenti.

Tim però è stata chiara: nel caso di newco vuole mantenere la proprietà con maggioranza. Anche perché una telco senza rete che senso avrebbe?

Avrebbe senso invece. Quel che proposi qualche anno fa era la creazione di due società separate entrambe quotate: da un lato Telecom Italia, società dell’infrastruttura, dall’altro Tim – acronimo di Telecom Italia Mercato – ossia un’azienda di servizi. Va da sé che in questo caso cadrebbe il tema della governance e della proprietà: i profili degli azionisti che investono in asset di rete sono ben diversi da quelli che scommettono sui servizi. E peraltro due società separate consentirebbero uno snellimento del debito ma anche del perosnale, in particolare per quella dedicata ai servizi, in termini di vincoli perché non ci sarebbe più un operatore verticalmente integrato soggetto a obblighi di vigilanza e di replicabilità dell’offerta. Certo, la società di servizi dovrebbe competere a quel punto ad armi pari con le altre telco, ma questo è il mercato.

E guardandola dal punto di vista di Open Fiber? Enel che vantaggi avrebbe a disfarsi della fiber company?

Obiettivamente nessuno. Tenga conto che, al contrario di quel che pensa qualcuno, Starace non ha investito nella fibra perché glielo ha ordinato qualcuno. C’è una grande sinergia tra gli asset di Enel e la fibra. Già qualcuno parla di infrastrutture “enercom”, combinazioni di energia e telecomunicazioni da realizzare insieme: dove porti le telecomunicazioni c’è sempre bisogno di energia e là dove c’è energia elettrica, le telecomunicazioni la fanno diventare più intelligente. Per capirne la portata, basta pensare al 5G: ogni nuova cella avrà bisogno sia di fibra sia di elettricità con garanzia di continuità. Queste sinergie in Italia non si sono materializzate, soprattutto per vincoli regolamentari. Ma a mio avviso non è un caso che Enel abbia comprato in Sud America altre reti in fibra, là sarebbe possibile ottenerle facendo leva anche sull’esperienza maturata in Italia.  Ma se l’ipotesi della fusione dovesse prevalere credo che solo con una chiara indicazione da parte dello Stato e una valutazione non penalizzante per Enel potrebbe configurarsi un soggetto interessante per tutti gli azionisti in campo.

Crede che lo Stato debba avere voce in capitolo anche sul 5G? Nel senso: come spingere la realizzazione delle nuove reti?

Il tema del 5G è spinoso: non esiste un business case per un’adozione ampia del 5G. E di fatto anche sulla rete mobile sarebbe bene mettere a fattor comune le tecnologie. Nell’epoca del software defined network c’è ampio spazio per definire un proprio livello di servizio e un proprio conto economico. E se è vero che nelle grandi aree urbane la competizione infrastrutturale consente ritorni economici a tutti è anche vero che ciò toglie risorse nelle aree meno urbanizzate. In Italia solo il 12% della popolazione vive nei grandi centri urbani. Quindi potrebbero restare fuori dalla partita 5G per un periodo lungo le aree meno densamente popolate. Senza considerare poi che in Italia la qualità della rete è elevata a fronte delle tariffe al consumo più basse al mondo: ciò margine agli operatori per gli investimenti e fino a quando gli azionisti continueranno a pompare risorse?

Ci sono gli accordi di network sharing però.

Sì ma si tratta di accordi sul fronte delle torri e non sulla parte attiva delle reti. Certamente è molto difficile che lo Stato possa fare pressione su questo tema, forse non è da escludersi che con il tempo sarà il mercato a dettare le regole. Un’ipotesi potrebbe essere far fare a Open Fiber la rete 5G condivisa in quel 65% dell’Italia dove è già chiaro che gli operatori mobili non infrastruttureranno. Hanno già la fibra in quelle zone, hanno già cantieri dappertutto, lo potrebbero fare anche molto velocemente.

C’è chi propone un piano “Bul” anche per il 5G: fondi pubblici per portare le reti nelle aree bianche, a partire da quelle montane. Che ne pensa?

Non credo sia la soluzione né che sia necessario. Gli operatori del Fixed wireless access sono pienamente in grado di colmare il divide proprio in queste aree. Resta il tema dei fondi europei: se si possono sfruttare per accelerare i lavori ben venga.

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