Il digitale grande assente nella campagna elettorale. Al netto degli slogan generici sulla necessità di tassare le big tech e delle prese di posizione, altrettanto generiche, sul progetto di rete unica Tim-Open Fiber per il resto nient’altro di rilevante.
La transizione digitale ai margini dei dibattito
Mentre la transizione ecologica diventa cavallo di battaglia per gran parte dei partiti la transizione digitale resta ai margini del dibattito nonostante la forte spinta all’innovazione innescata dalla pandemia e, di conseguenza, dal Pnrr che al digitale dedica gran parte delle risorse in campo. Un paradosso se si considera che nessuna transizione ecologica sarà possibile senza il rafforzamento degli investimenti in infrastrutture a banda ultralarga e in servizi di nuova generazione basati sulle tecnologie figlie del digitale.
La macchina è stata messa in moto ma siamo in piena fase di rodaggio e se non si terrà alta l’attenzione sull’attuazione dei progetti avviati (sulla carta) il motore italiano rischia di incepparsi: la trasformazione digitale della pubblica amministrazione è ancora tutta da farsi, i cantieri per la realizzazione delle infrastrutture a banda ultralarga fissa e mobile (5G) sono appena partiti e le difficoltà sul cammino non mancano a partire dal grande tema della mancanza di manodopera che fa il paio con l’aumento dei prezzi di molte “materie prime” (chip e fibra per citare due componenti fondamentali) a causa delle difficoltà di approvvigionamento frutto degli stop & go dei lockdown in Cina, della guerra in Ucraina, dell’inflazione crescente e di un quadro economico incerto che metterà ancora più in difficoltà comparti già sofferenti come quello delle telecomunicazioni.
Nuova teorie complottiste: è la volta del partito anti-Spid
E tanto per aggiungere altra carne al fuoco nel nostro Paese ci sono movimenti politici che al posto di sdoganare il digitale addirittura puntano a tagliargli le gambe: emblematica la campagna anti-Spid che si fa strada in casa Italexit basata sulla teoria del “vogliono tracciarci e spiarci tutti”. E c’è da attendersi che qualcuno torni a rispolverare quella del 5G che danneggia la salute e altre tesi figlie del complottismo e del populismo tanto per raccattare voti facendo leva sulle paure dei cittadini.
L’Italia regina d’Europa al 2026? Improbabile
L’ultima edizione dell’indice Desi che mappa il livello di digitalizzazione dei Paesi Ue piazza l’Italia al 18mo posto: la “conquista” di due posizioni rispetto a un anno fa, diciamolo, è una magra consolazione e nonostante il ministro dell’Innovazione Vittorio Colao abbia più volte annunciato che l’Italia si piazzerà nelle posizioni di testa da qui al 2026 si fa fatica a credere che il risultato sarà raggiunto visti i presupposti e vista la debole attenzione dei politici ai temi dell’innovazione, anche di coloro che sbandierano l’agenda Draghi come punto di riferimento. Siamo quartultimi in Europa alla voce “competenze innovative”: peggio di noi solo Polonia, Bulgaria e Romania. Per non parlare delle pmi ancora tutte da digitalizzare e dei servizi pubblici digitali ancora troppo carenti. In attesa dei programmi elettorali e del rush finale verso il voto per ora tutto più o meno tace.