Cloud computing, l’allarme del Mit: “Sicurezza a rischio”

Un’analisi del prestigioso Institute of Technology di Boston, condotta in collaborazione con la University of California, accende i riflettori sulle vulnerabilità dell’Internet delle cose

Pubblicato il 23 Ott 2009

Cloud computing: molte le aziende tecnologiche che stanno
investendo sull’Internet delle cose. Ma quanto sono sicuri i
nuovi servizi? Secondo uno studio a firma del Mit di Boston, il
cloud computing potrebbe essere facilmente oggetto di attacchi
malevoli, perché permette ai criminali della rete di individuare
con esattezza la posizione fisica dei dati dentro la
“nuvola”.

Lo studio ha analizzato uno dei maggiori servizi cloud offerti
oggi, l’EC2 (Elastic computer cloud) della Amazon, ma, avverte:
“Riteniamo fermamente che queste vulnerabilità siano proprie di
tutta la tecnologia di virtualizzazione esistente e riguardino
anche gli altri provider”, come dichiara Eran Tromer, ricercatore
del Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory del
MIT, che ha condotto la ricerca con tre colleghi della University
of California di San Diego.

I servizi di cloud computing danno in affitto risorse
computazionali, tra cui potenza di calcolo e storage. Queste
tecnologie usano macchine “virtuali" il cui numero può
essere ampliato o ristretto a seconda della domanda, ottenendo il
massimo dell’efficienza. Ma i veri calcoli vengono effettuati da
uno o più datacenter fisici, ciascuno contenente migliaia di
computer. Inoltre, le macchine virtuali di diversi clienti possono
trovarsi sugli stessi server fisici. E’ proprio questa la grande
vulnerabilità del cloud.

Secondo i ricercatori, i criminali intenzionati a entrare nella
“nuvola” si muovono innanzitutto individuando quale server
fisico dentro il cloud viene usato dalla vittima; dopodiché viene
impiantata sullo stesso server una macchina virtuale maligna.
Infine, viene sferrato l’attacco. Trovare la vittima in mezzo a
decine di migliaia di server può sembrare impossibile, ma i
ricercatori fanno notare che basta un semplice lavoro da detective:
“Pochi dollari investiti nel lancio di macchine virtuali possono
produrre una chance del 40% di sistemare la macchina virtuale
maligna sullo stesso server fisico dove si trova il target”.

Questo processo di mapping viene definito nello studio
"cartografia”. Una volta sistemata la macchina virtuale
maligna sullo stesso server della vittima, è possibile monitorare
attentamente l’entrata e l’uscita delle informazioni e quindi
estrarre i dati più sensibili. Altro punto debole del cloud
sfruttato dai criminali è il fatto che tutte le macchine virtuali
hanno indirizzi Ip, visibili a chiunque all’interno della
“nuvola”.

Inoltre, sull’EC2 di Amazon, gli indirizzi vicini spesso
condividono lo stesso hardware. Il criminale può creare una serie
di sue macchine virtuali, vedere che indirizzo Ip hanno e cercare
di capire quali condividono le stesse risorse fisiche del target
(sistema detto “co-residence”) o, in maniera ancora più
efficace, può creare la sua macchina virtuale nello stesso momento
in cui la crea la vittima (“coincidenza nel timing”). Per
raggiungere questo obiettivo, il criminale potrebbe inondare il
sito Internet della vittima di richieste, costringendola a
espandere la sua capacità di calcolo creando nuove macchine
virtuali.

In sostanza, uno dei benefici chiave del cloud computing, la
capacità di espandere o contrarre all’istante la capacità di
calcolo, in base alle esigenze, diventa una grave debolezza. In
entrambi i casi, entrare sul server fisico del target vorrebbe dire
controllare il flusso delle sue informazioni: per esempio, se si
registra un aumento di attività tra due broker l’hacker potrebbe
dedurre l’avvicinarsi di un’importante transazione.

I ricercatori hanno dimostrato quindi la possibilità di osservare
il flusso di informazioni più o meno sensibili, ma non quella di
rubarle. "In questo contesto non abbiamo dimostrato il furto
delle chiavi crittografiche, ma che ciò sarebbe possibile",
dice Tromer. I quattro ricercatori hanno dimostrato anche la
possibilità di carpire le password della vittima tramite il
cosiddetto keystroke attack. Inoltre, se il criminale risiede sugli
stessi server della vittima, può sferrare un attacco del tipo
denial-of-service aumentando improvvisamente l’utilizzo delle
risorse a disposizione.

Amazon ha già risposto allo studio dichiarando che “esistono
nell’EC2 baluardi per prevenire gli attacchi che usano le
tecniche di cartografia descritte”. Ma secondo Tromer l’unica
vera soluzione al problema sarebbe evitare che i clienti
condividano tra loro lo stesso server fisico. Creare barriere
virtuali inviolabili tra macchine virtuali che risiedono sullo
stesso server “è in realtà un problema aperto”.

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

Articoli correlati