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Cloud pubblico, il prezzo (salato) del successo

Portare i dati sulla “nuvola” pubblica è a costo zero solo all’inizio: le spese lievitano con l’aumentare dei contatti e dell’utilizzo dell’applicazione. E si va affermando un nuovo trend, il “repatriation”: riportare tutto in casa

Pubblicato il 11 Ago 2015

Antonio Dini

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Cloud pubblico indietro tutta. La nuvola di altri, quella dove andare a portare le proprie applicazioni e i propri dati, sta diventando meno popolare. Mentre fa la sua comparsa una nuova parola d’ordine: “repatriation”, “rimpatriare”, cioè riportare nella casa aziendale (in patria) quello che prima era stato portato fuori.

Il punto è che, secondo i detrattori del cloud pubblico, solo ora si avverte un problema. Forse perché il cloud pubblico era stato interpretato come un prodotto sostanzialmente a bassissimo costo o quasi nullo (“free”) viste le offerte commerciali di attivazione da parte dei grandi fornitori, la scoperta che in realtà possa essere molto costoso ha preso tanti in contropiede.

Quando emergono i costi? Nel momento in cui la propria attività o la propria applicazione hanno successo. La logica, spiegano i detrattori del cloud, è questa: si porta a costo sostanzialmente basso o bassissimo i dati nella nuvola pubblica, si attende che parta la prima implementazione, si cominciano ad apprezzare i benefici di avere un servizio di eccellenza raggiungibile da qualunque dispositivo, e a quel punto arriva il successo e, con questo, il dramma.

Infatti, all’aumentare dei contatti e dell’utilizzo dei servizi nella nuvola a seconda del modello di pagamento scelto aumentano in maniera decisa i costi. E spesso questo aumento non è lineare: il rischio è di andare decisamente fuori budget. Come per l’antico adagio del saggio che chiese all’imperatore persiano, come pagamento per aver inventato il gioco degli scacchi, un chicco di riso sulla prima casella di una scacchiera, due sulla seconda, quattro sulla terza, sedici sulla quarta, 32 sulla quinta e via crescendo. Sino ad arrivare alla sessantaquattresima casella della scacchiera, quella dove si sarebbe dovuto accumulare più riso di quanto l’impero persiano non ne avesse mai prodotto (per la cronaca: 9.223.372.036.854.775.808 chicchi).

Sono le progressioni al raddoppio, che possono ingannare e fare molto male a chi non ha capito la velocità con la quale scalano. E i costi del cloud sono più che lineari: nella maggior parte dei casi la matematica dietro le tariffe esprime delle progressioni geometriche, cioè con crescita esponenziale, proprio per via di un fattore “premiante” per il fornitore del servizio, che dopotutto chiede cifre bassissime o pari a zero all’avvio della nuvola pubblica e vuole guadagnarci con chi inizia a sfruttarla seriamente.

Il problema con questo tipo di critiche al cloud pubblico, certamente fondate almeno dal punto di vista dell’ingenuità di chi potrebbe immaginare che sia tutto gratuito e che quindi esista qualcosa come il free lunch, quel “pasto regalato” diventato uno dei tormentoni della teoria economica neoliberista in salsa digitale, è in realtà un altro. I costi di mettere in piedi un cloud privato sono enormi, quelli di molte soluzioni ibride debbono essere invece ben ponderati perché, se è vero che riducono l’utilizzo della parte pubblica della nuvola, dall’altra costringono a mettere in piedi un datacenter robusto e dotato di fortissima connettività, che non è un costo che le aziende possano eliminare “facendo da sé”, come invece la retorica del cloud privato vs cloud pubblico implicherebbe. Ancora, lo spostamento delle applicazioni e dei loro dati tra ambienti diversi non è mai semplice e lineare, soprattutto quando parliamo di cose più sofisticate che non un server di posta o un sistema di CRM.

Il dilemma del Cto

Certamente, oggi come non mai il cloud privato sta diventando più economico e facile: Microsoft ha realizzato il suo Azure Pack e Windows Server 2016 ha fatto grandi promesse per quanto riguarda il cloud privato. E poi ci sono un sacco di strumenti, a partire da OpenStack che adesso arriva in versioni semplificate, pacchettizzate, più facili da fare il deployment e la gestione, come quelle di CloudScaling, IBM, PistonCloud (comprata poco tempo fa da Cisco) e Red Hat, oltre che le offerte di OpenStack su appliance come quelle di Mirantis e Breqwatr, per esempio.

Tuttavia, il tema rimane aperto. I detrattori del cloud pubblico hanno trovato qualcosa di sostanziale sottolineando che i costi salgono lungo una curva molto ripida e che per i suoi utilizzatori il fattore di rischio maggiore può essere il costo del successo (soprattutto visto che le aziende sono abituate a modelli di scontistica che diminuiscono i prezzi all’aumentare della spesa e non viceversa), mentre i critici del cloud privato argomentano bene che, seppure sempre più facile da creare e con investimenti calanti, ha un sostanziale problema: a meno di non investire in modo massiccio in sovra-capacità, il rischio concreto, in caso di successo, è quello di rimanere bloccati dal proprio costoso ma limitato centro di calcolo nonché nuvola interna. A quel punto far crescere rapidamente e in modo massivo un datacenter non è come aggiungere un po’ di mattoncini di lego a una torre: a volte è più costoso che non farne uno nuovo.

La risposta? È una questione di equilibrio e di scelte strategiche che vanno oltre le limitazioni tecnologiche. Ma solo se si ha una chiara coscienza di quali siano queste opportunità e limitazioni tecnologiche.

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