LA SENTENZA UE

D’Angelo: “Il diritto all’oblio? Non è solo on/off”

“Il tema va affrontato anche con regole tecniche per fare sì che ciascuno di noi possa navigare sul web senza che i dati finiscano in un computer governativo o usati, a nostra insaputa, per fare soldi. Servono maggiore trasparenza e responsabilità da parte chi opera in rete”

Pubblicato il 26 Mag 2014

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In questi giorni si discute molto della recente sentenza della Corte Europea di Giustizia nel caso che ha visto contrapposti Google Spain e l’Agenzia spagnola di protezione dei dati personali. Come sempre si è assistito ad una radicale divisione tra chi ha denunciato i pericoli della sentenza per la libertà d’informazione in rete e chi ha accolto la notizia come il giusto riconoscimento del diritto alla cancellazione delle notizie sul proprio conto. In realtà, in questa vicenda ci sono innanzitutto aspetti che riguardano l’applicabilità tecnologica del cosiddetto diritto all’oblio.

Un’informazione una volta sul web si colloca in un ambiente che per sua stessa natura rende improbabile la sua cancellazione definitiva. Qualcuno enfaticamente ha detto che una volta in rete un dato sta lì “per l’eternità”.
Il secondo aspetto rilevante riguarda il principio di fondo sostenuto nella sentenza: l’attività di un motore di ricerca, quando riguarda dati personali, costituisce un trattamento rilevante ai sensi della direttiva 95/46/CE e delle singole legislazioni nazionali sulla privacy. In sostanza, il motore di ricerca è responsabile dei dati personali in aggiunta alla responsabilità dei titolari dei singoli siti web indicizzati. È titolare, per usare il termine della legge italiana, di uno specifico trattamento distinto da quello effettuato da chi ha immesso in rete lo stesso dato.

È di tutta evidenza che l’affermazione di un principio del genere può avere effetti negativi sulla libertà di informazione. Solo grazie al motore di ricerca si può avere una visione complessiva delle informazioni che ad esempio riguardano una persona o un certo fatto. E d’altra parte, sono in gioco diritti fondamentali come quelli relativi alla protezione dei dati personali.
Tuttavia, nella stessa sentenza, che pure non è priva di alcune criticità, si evidenzia che questa contrapposizione, tra informazione e privacy, non sussiste quando i dati riguardano chi riveste un ruolo pubblico. In questo caso la bilancia dovrebbe spostarsi verso il diritto alla libera informazione, con buona pace di quei politici che hanno accolto la sentenza come l’inizio della revisione delle regole di internet. Si vedrà nei prossimi mesi se ci sarà un effetto della pronuncia della Corte di Giustizia anche sul testo del nuovo Regolamento Ue sulla privacy, in corso di approvazione, e si vedrà come le singole Autorità nazionali di protezione dei dati e i tribunali applicheranno i suoi principi.

Una cosa è certa: negli ultimi tempi abbiamo assistito ad una vera e propria demolizione della nostra privacy, in particolare nel caso della Nsa americana. L’imponente attività di intercettazione delle nostre comunicazioni o dei nostri dati su internet si è potuto realizzare anche grazie alla compiacenza delle società che operano sulla rete. Il funzionamento e l’uso di quest’ultima però non può prescindere dalla tutela della privacy. Se so di essere sorvegliato sarò meno libero di fare le ricerche che voglio e questo avrà un effetto sulla mia libertà e sulla mia creatività. Il punto dunque non è tanto: diritto all’oblio sì o no. Oggi più che mai occorre garantire, con regole anche tecniche, il diritto di ciascuno di noi ad essere liberi di navigare sul web, senza che i nostri dati finiscano in un computer governativo o usati, a nostra insaputa, per farci soldi. Una maggiore trasparenza e una maggiore responsabilità di chi opera in rete sarebbe perciò auspicabile.

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