Mafe De Baggis bazzica tra le maggiori tribù digitali italiane da oltre dieci anni, prima come community manager, oggi come consulente per il design di spazi e servizi online.
Come hai iniziato?
Un po’ per caso. Usavo spesso la chat e un cliente dell’agenzia per cui lavoravo se n’è accorto. Ha voluto che entrassi nel team di gestione di Atlantide, la prima grande comunità italiana in Rete. Erano gli anni di Tripod e Digiland.
Si è modificato il lavoro negli anni?
Inizialmente era un lavoro molto editoriale: le community avevano delle front page di ingresso. Si gestivano chat, forum e il customer care via e-mail. Negli ultimi anni molto ruota intorno ai social, ma gestire un milione di fan non è così diverso. Servono tecniche di comunicazione e figure specializzate.
E le community sono cambiate?
All’inizio e fino al 2003-2004 erano basate su siti specifici, molto costosi da realizzare e mantenere. Questo modello è stato mantenuto solo dagli editori. Oggi però in molti stanno tornando ai siti aziendali. Partono dai social per convogliare su queste aree i propri utenti. Un metodo che consiglio e condivido.
Che fa un community manager?
Il compito principale è di portare all’interno dell’azienda la voce dei clienti. E mostra l’azienda all’esterno, per far capire che non è un’entità astratta, ma fatta di persone e progetti: una sorta di “cerniera” tra dipendenti e clienti.
E i contenuti?
In una prima fase, pionieristica, era importante che il community manager fosse parte della comunità e conoscesse gli argomenti. Conquistava una maggiore autorevolezza. Oggi può anche impararli in un secondo momento. Se ami gli argomenti trattati resisti più a lungo, ma non è indispensabile.
Resistere, in che senso?
Lo scrissi già nel 2001: è una missione impossibile superare i due anni di community management. È un lavoro appassionante, ma faticoso.
E chi volesse farlo da dove deve partire oggi?
Buone basi di sociologia e psicologia non guastano. Poi occorre frequentare gli ambienti di Rete in prima persona, a partire dai social.
Il community manager ha mercato?
Sì, ma deve essere in grado di vendersi da solo. Non è una professione esplicitamente richiesta dalle imprese ed è difficile spiegare in che consiste.
Manca cultura su questo tipo di lavoro?
Sì. Anche sotto il profilo della quotazione del suo valore. Molti cercano di sottopagarlo, un po’ come si fa per quei mestieri che sembrano piacevoli. Chi è disposto a pagarlo bene, al contrario, deve la sua premura a qualche guaio in cui è incappato. È una professione difficile da valutare. Paradossalmente è più semplice vendere la consulenza strategica e la progettazione delle community rispetto alla gestione. Ma sono attività che non hanno senso senza un community manager.
Le community non vanno avanti da sole…
No, non si installano come Word. Non sono plug & play.
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De Baggis, la manager che porta in azienda la voce dei clienti
La professionista: “Fare il community manager è un lavoro faticoso. Nozioni di sociologia e psicologia possono aiutare”
Pubblicato il 20 Mar 2014
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