Facebook ammette: campagna mediatica per screditare Google

Il social network conferma di aver assunto la società di public relations Burson-Marsteller per diffondere alla stampa notizie denigratorie sull’approccio alla privacy del motore di ricerca

Pubblicato il 13 Mag 2011

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Facebook ha ammesso di aver ordito una campagna mediatica per
gettare fango su Google. il social network ha assunto nel novembre
scorso la società di public relation Burson-Marsteller, che ha
lavorato tra gli altri per Hillary Clinton nella campagna
presidenziale 2008, per invitare giornalisti a scrivere storie che
facessero apparire Google sotto una luce negativa. In particolare,
la campagna ha preso di mira i rischi per la privacy degli utenti
del social network.

L'ammissione di Facebook è l'ultimo segnale della
crescente rivalità fra i due colossi del web, che si contendono i
clienti e il budget dei pubblicitari della Rete. Secondo quanto
riportato dal Daily Beast, Facebook ha assunto Burson-Marsteller
per persuadere i giornalisti e i paladini della privacy a scrivere
storie critiche su Social Circle di Google.

Ma gli sforzi – riporta il New York Times – sono naufragati con
Christopher Soghoian, un blogger statunitense frequente critico di
Google, che ha pubblicato il proprio scambio di mail con
Burson-Marsteller. Nelle mail un rappresentante dell'agenzia di
pubbliche relazioni descrive Social Circle come un prodotto
disegnato per "costruire dossier personali di milioni di
utilizzatori, in flagrante violazione" degli accordi di Google
con la Federal Trade Commission.

A peggiorare il quadro il fatto che Burson Marsteller,
nell'esercitare pressione sui giornalisti, non ha mai
dichiarato apertamente di lavorare per Facebook. La società di
pubbliche relazioni ha precisato di non lavorare più per il social
netowrk.

Facebook respinge le accuse di campagna denigratoria nei confronti
di Google e precisa che l'obiettivo era quello di portare
l'attenzione dei giornalisti su un problema di privacy.
"Nessuna campagna denigratoria è stata autorizzata – osserva
Facebook – Abbiamo assunto Burson-Marsteller per portare
l'attenzione" sul problema della privacy,
"utilizzando informazioni pubbliche che potevano essere
verificate da tutti".

"Il cliente ci ha chiesto – osserva Burson-Marsteller – che il
suo nome non comparisse nel mettere luce alle informazioni
pubbliche disponibili". "Facebook dovrebbe cercare la
strada – osserva con il Financial Times Simon David, direttore di
Privacy International – per risolvere i suoi problemi non per
mettere luce su quelli degli altri".

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