Fiaccadori: “Per fare l’Italia digitale servono competenze ad hoc”

Il manager dell’Ice-Agenzia spiega come fare a reimpostare le strategie: “Stiamo avviando progetti pilota in ambito distributivo, per innescare collaborazioni con l’estero, in grado di suscitare l’interesse dei produttori italiani”

Pubblicato il 11 Giu 2015

Claudio Rorato

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L’export è un’ottima cura per le aziende che vogliono reagire all’asfissia del mercato interno. L’imprenditoria nostrana, di piccola dimensione, è ancora troppo ancorata alla di prodotto e poco sui processi gestionali e di interazione con il mercato. Prevale la “cultura” tecnica su quella gestionale che, invece, è sempre più importante, soprattutto ini contesti più ampi. L’imprenditore ha bisogno di strumenti, di alfabetizzarsi su nuove tecniche di gestione, anche con l’aiuto dei suoi professionisti e di enti che hanno tra le finalità il sostegno all’internazionalizzazione. Ne parliamo con Gianni Fiaccadori che, all’interno di Ice-Agenzia, si occupa di terziario avanzato e logistica distributiva.
Quali sono le richieste più ricorrenti nei confronti di Ice?
L’attività promozionale dell’Ice-Agenzia ha un carattere eminentemente merceologico. Organizza per le aziende partecipazioni fieristiche e provvede a invitare potenziali acquirenti esteri. Promuovere proposte di innovazione digitale all’estero con queste premesse è arduo, perché significa entrare nell’ambito dei singoli processi lavorativi, non facili da inquadrare nel nostro caso. Il dialogo con le imprese in questo comparto è agli albori: manca “l’alfabeto operativo” con cui comunicare e l’individuazione di obiettivi realmente condivisi. La percezione è quella di una domanda ancora debole, a cui finisce per corrispondere una risposta altrettanto fievole in termini di attenzione e risorse messe a disposizione.
Ice-Agenzia ha dei programmi per sostenere la diffusione dell’innovazione digitale, come strumento che abilitari l’internazionalizzazione?
In via sperimentale stiamo avviando progetti pilota in ambito distributivo, per innescare collaborazioni con primarie controparti estere, in grado di suscitare l’interesse dei produttori italiani. Anche questa è una forma di servizio che stiamo mettendo a punto. I comparti su cui ci stiamo muovendo sono quelli dell’alimentare, dell’attrazione dei flussi turistici e dell’integrazione di servizi per le aree agricole e urbane. Parliamo, in questo caso, di smart agricolture, smart manufacturing e smart logistics.
Cosa fare per essere più presenti su mercati poco serviti dall’Italia, ma di grande potenziale?
Credo che nella “ricetta” non possano mancare la diffusione dei casi di successo, l’informazione sui modelli di business adottati e la formazione, anche attraverso strumenti innovativi. Con tutti i limiti delle generalizzazioni, mi sento di affermare che il nostro Paese, frammentato in campanilismi di tutti i generi, sconta un deficit culturale, che ha frenato la capacità di comprendere che lo sviluppo economico e sociale, in termini di globalizzazione dei mercati, necessita di integrazioni tra i sistemi e di una gestione trasversale e integrata dell’informazione. Il Paese non lo ha fatto e, per molti versi, continua a non farlo, malgrado la competizione internazionale sia sempre più aspra e diffusa. In passato il sistema socio-politico ha preservato dal fallimento questo modello attraverso il deficit pubblico, strada non più percorribile. Il danno ormai è fatto. Ora potremmo iniziare il cambiamento, a patto che si diffonda la consapevolezza che, nell’economia globale, gli alti livelli di Pil si mantengono solo con persone capaci e con tecniche gestionali in grado di integrare sistemi complessi in modo molto efficiente. Competere nei processi di lavoro è più difficile che farlo solamente sul prodotto.

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