Gemme (Anie): “Entro aprile definire roadmap per comparto microelettronica”

Il presidente della federazione delle imprese elettrotecniche ed elettroniche accende i riflettori sul tavolo di settore aperto al Mise: “Istituzioni e sindacati interlocutori attenti e competenti, ma bisogna stabilire un percorso ad hoc per uscire dalla crisi coinvolgendo anche Miur e Regioni. Spingere sull’internazionalizzazione”

Pubblicato il 06 Feb 2014

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La situazione complessiva nel campo della microelettronica è fatta di luci e ombre. Aziende sparite a causa della crisi economica, gruppi che sono riusciti a rimanere sul mercato tra mille difficoltà, continuando a investire in ricerca e sviluppo e innovazione per non venire spazzati via dai concorrenti più agguerriti, soprattutto dall’estero. Oggi iniziano a essere evidenti i primi segnali di ripresa, e proprio la settimana scorsa si è riunito al Mise il tavolo di settore con il sottosegretario De Vincenti e i sindacati. Claudio Andrea Gemme è il presidente dell’Anie, la federazione nazionale delle imprese elettrotecniche ed elettroniche, e sul tavolo ministeriale ha intanto un suggerimento da dare: “Bisognerebbe allargare il perimetro di questa iniziativa – afferma – coinvolgendo oltre al Mise anche il Miur, che è competente in molte situazioni che riguardano la ricerca, e alcune delle Regioni con le potenzialità più alte, come la Lombardia, l’Abruzzo e la Sicilia”.

Dottor Gemme, come fotografa in questo momento la situazione del settore?

La vision generale è che per troppo tempo abbiamo sofferto di un’implosione del mercato, in particolare in Italia. Le aziende che sono sopravvissute hanno fatto sforzi importanti in un settore dove si impone un continuo investimento in ricerca, sviluppo e in innovazione. Le aziende di questo settore investono mediamente il 4% all’anno in ricerca e sviluppo, e hanno continuato a farlo in modo virtuoso, nonostante l’implosione del mercato. Ma se guardiamo a due anni fa il fatturato era di 73 miliardi, mentre adesso è di 63. Alcuni settori sono completamente spariti, come il fotovoltaico e il metal, per diversi motivi. Due macromercati, quelli delle rinnovabili e della siderurgia, che hanno pregiudicato pesantemente il settore dei sistemi elettrici. Buone notizie vengono dall’estero, perché dei 63 miliardi di fatturato di oggi 28 li facciamo all’estero.

Quali sono le prospettive ora che il mercato inizia a dare segni di ripresa?

Oggi che c’è una ripresa, seppur debole, bisogna ancora essere forti, perché tutti quanti cercano innanzitutto di coprire i costi fissi e riaprire le fabbriche, anche a dispetto del che non è la prima cosa a cui si guarda. Le aziende cha hanno mantenuto di un po’ di attività internazionale riescono a essere competitive, mentre altri non ce la fanno perché il contesto generale italiano è drammatico: innanzitutto sul fronte dei pagamenti, e poi anche perché le banche si sono tirate indietro e non fanno più fideiussioni. Fuori dalla mia porta ho la coda di aziende in difficoltà.

Ma come si possono aiutare le aziende virtuose?

Fortunatamente un tessuto forte è rimasto, con imprenditori che hanno continuato a investire su un mercato la cui obsolescenza è rapidissima. Secondo me l’unico modo, al di là di quello che stiamo facendo anche in modo positivo con i tavoli aperti con le istituzioni, che si dimostrano interlocutori competenti, è di detassare i potenziali utili generati dall’azienda e reinvestiti in ricerca e sviluppo o in innovazione. Se l’azienda riesce a generare un milione di utili, e questi vengono tassati al 50%, si pregiudica la possibilità di rimettere quei soldi in un ciclo virtuoso che potrebbe consentire anche di innovare i processi produttivi. I sistemi ormai sono così evoluti che richiedono un continuo aggiornamento, e in questo campo le piccole e medie imprese devono essere aiutate.

Quali potrebbero essere i punti qualificanti di un eventuale intervento del Governo?

Il punto principale è aiutarci davvero nell’internazionalizzazione. In Italia abbiamo una serie di aziende d’eccellenza sull’ingegneria, e che per andare all’estero devono avere una forte base locale. Così le piccole e medie imprese sono in difficoltà. Come associazione cerchiamo di aiutarle attraverso il sistema delle reti di imprese, ma le aziende straniere spesso hanno ‘sistemi paesi’ che le sostengono. Un brasiliano che viene qui e ottiene il 22% di premio di esportazione ha un bel vantaggio. Quando noi andiamo in Brasile non ci fanno lavorare se non compriamo un’azienda locale e non dimostri di essere locale. Sono barriere enormi e altre ce ne sono tra l’Europa e gli Stati Uniti. Il Governo ci dovrebbe aiutare a creare un sistema Paese che ci consenta di poter essere presenti e forti all’estero. Anche questa è innovazione.

Come state lavorando con i sindacati?

Si tratta di interlocutori seri. Mai come oggi l’imprenditore, il manager o il capo azienda vede anche nelle forze sindacali un interlocutore valido, perché quello che dobbiamo salvare è la cosa più importante che esiste nell’azienda: il contenuto umano. Senza le persone la tecnologia sarebbe inutile. C’è consapevolezza nel sindacato, raramente si trovano opposizioni strumentali, tutte le volte che siamo riusciti a metterci a un tavolo a declinare un piano, a far vedere che si riesce a investire, si trovano interlocutori seri, capaci e preparati.

I tempi del percorso: che margini ci sono per un intervento incisivo?

Io credo che sia molto importante riuscire entro il mese di aprile a trovare un percorso nuovo. Si tratta di temi che in assoluto non sono difficili da affrontare, perché in Europa li hanno già affrontati e anche risolti. Troppo spesso il sistema è greve, appesantito dalla burocrazia.

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